Il Sars-Cov-2, il virus che causa il Covid-19, entra nel nostro organismo per via aerea attraverso il naso e la bocca, arriva nei polmoni e qui, tramite la sua proteina spike si lega ai recettori Ace2 sulla membrana delle cellule dei nostri alveoli polmonari, penetra dentro di esse, si replica generando nuove copie del virus che danneggiano la cellula, ne fuoriescono, i nuovi virus invadono le cellule vicine, e così via, e distruggono a poco a poco i polmoni.

Questa infezione richiama nei polmoni un gran numero di cellule immunitarie di pronto intervento con il compito di attaccare e uccidere il virus, definite “cellule dell’infiammazione” – granulociti, macrofagi, ecc. – che cominciano a secernere sostanze chiamate citochine, le quali attirano altre cellule immunitarie che fagocitano virus e cellule morte, e che rilasciano altre citochine, le quali richiamano altre cellule ancora, e così via.

Questa infiammazione è la prima risposta del nostro corpo contro l’infezione da coronavirus: si chiama risposta immunitaria innata, è la più antica e meno specifica, e, come un esercito che butta bombe a mano di qua e di là, uccide tutto, virus e cellule del nostro corpo.

Poi, dieci o quindici giorni più tardi, incominciano anche ad arrivare cellule immunitarie più specializzate: i linfociti B che producono anticorpi contro il virus, e i linfociti T che uccidono in maniera specifica il virus. Questa è la risposta immune acquisita.

Ma in qualche caso, specie in chi è più anziano, i linfociti B e T sono meno efficienti, come soldati un po’ avanti negli anni, e invece a combattere restano solo le cellule dell’infiammazione, che secernono una “tempesta di citochine” che richiama un’enorme massa di cellule immunitarie, le quali scatenano una superinfiammazione polmonare che distrugge tutto, virus e tessuto polmonare: questi sono i casi di Covid più gravi, che possono portare persino alla morte.

Perciò, i danni più seri del Covid sono determinati non dal virus, ma dalla azione eccessiva del nostro stesso sistema immunitario.

Farmaci e Rna

Qual è la cura contro il Covid? Ci sono vari tipi farmaci. Ci sono farmaci come il remdesivir, il molnupiravir o il paxlovid che rallentano la replicazione del virus senza ucciderlo, quindi esso continua, seppur più lentamente, a crescere dentro il corpo: difatti non funzionano un granché.

Perché? Il remdesivir e il molnupiravir sono composti chimici che inibiscono la replicazione dell’Rna, cioè del genoma del virus.

L’Rna del virus è un lungo filamento costituito da una serie di mattoni denominati nucleotidi, che sono adenina, guanina, citosina, e uracile.

Per moltiplicarsi, ogni virus deve originare due virus figli, ma per farlo deve generare da quel primo filamento di Rna un secondo filamento di Rna che andrà a fare parte del virus figlio: e allora usa il suo filamento di Rna come stampo per crearne un secondo.

Il remdesivir inibisce la Rna polimerasi del virus, cioè l’enzima che sintetizza la copia di Rna; il molnupiravir è un analogo non funzionante della citosina. Se un paziente assume il remdesivir il virus non riesce a generare una copia del suo Rna, se assume il molnupiravir, il virus riesce a generare una copia del suo Rna ma non funzionante: e quindi il virus figlio muore senza provocare danni.

Il problema è che il paziente malato di Covid ha nel suo corpo milioni e milioni di virus in replicazione, e quindi il livello ematico dei due farmaci deve essere sempre altissimo per inibirli tutti: ma se solo un virus “giusto” riesce a replicarsi in maniera corretta generando un Rna funzionante, e il livello del farmaco cala, allora quel virus si moltiplica, e l’infezione riparte. Perciò, questi farmaci non sono così efficaci.

Poi c’è il paxlovid, un farmaco nuovo. Quando il coronavirus infetta le nostre cellule fa tradurre il suo lungo filamento di Rna in proteine da speciali apparati molecolari delle nostre cellule chiamati ribosomi.

L’Rna del virus viene tradotto in una lunga polipropteina inattiva che poi uno speciale enzima del virus, chiamato proteasi, taglia in tante proteine più piccole, funzionanti.

Il paxlovid inibisce l’attività della proteasi del virus, che quindi non può tagliare la lunga poliproteina nelle proteine funzionanti: perciò il virus non riesce a infettare le nostre cellule.

Ma anche qui, il problema è che il paziente malato di Covid ha nel suo corpo milioni e milioni di virus in replicazione, e quindi il livello ematico del farmaco deve essere sempre altissimo per inibirli tutti, il che non può sempre avvenire, quindi questi farmaci non è detto che siano super efficaci.

Anticorpi monoclonali

Poi, ci sono gli anticorpi monoclonali. Cosa significa anticorpo monoclonale? Significa che è un anticorpo prodotto da un solo clone di linfociti.

Quando il virus penetra all’interno del nostro organismo attiva una gran numero di linfociti B, ognuno dei quali si mette a produrre uno e un solo tipo di anticorpi indirizzato contro una piccola porzione specifica del virus, e poi si moltiplica, generando un clone di linfociti identici che producono tutti lo stesso tipo di anticorpo.

Gli anticorpi monoclonali, cioè prodotti da un clone di linfociti, sono tutti identici. Ma non tutti gli anticorpi sono efficaci alla stessa maniera. Ci sono anticorpi che si legano a una determinata regione della proteina spike del virus, quella che il virus usa per attaccarsi alle nostre cellule, che impediscono perfettamente il legame del virus ai recettori Ace2, e perciò bloccano la sua penetrazione dentro le nostre cellule e arrestano la malattia.

Basta identificare questo anticorpo perfetto e produrne a tonnellate per somministrarlo ai malati, direte. Non è così.

Per prima cosa, gli anticorpi monoclonali sono efficaci solo nei primi stadi della malattia, nelle prime 72 ore, quando il virus ha iniziato da poco a diffondersi nel nostro corpo, si trova ancora fuori dalle nostre cellule e si mette ad invaderle una dopo l’altra, perché solo quando i virus sono all’esterno delle nostre cellule gli anticorpi si possono legare ad essi bloccandoli.

Una volta che i virus sono penetrati dentro le nostre cellule, l’anticorpo non può più raggiungerli: perciò si scatena l’infiammazione e la malattia progredisce inesorabile, nei casi più gravi distruggendo i polmoni.

Inoltre, gli anticorpi monoclonali sono piuttosto pericolosi perché, essendo proteine estranee al nostro corpo, quando ci vengono infusi possono spesso scatenare forti reazioni avverse, come shock anafilattici, da parte delle nostre cellule immunitarie, e quindi vanno somministrati in ambiente ospedaliero; e sono costosissimi.

Tra l’altro, adesso è comparsa Omicron, una variante del virus che possiede una proteina spike così mutata che nessuno degli anticorpi monoclonali prodotti precedentemente funziona contro di essa, a parte uno: il sotrovimab. Quindi, se Omicron prevarrà, tutti gli altri anticorpi monoclonali fino ad ora in commercio li potremo buttare nella spazzatura.

I più comuni Fans

Infine, ci sono i farmaci anti infiammatori come la tachipirina, i farmaci anti infiammatori non steroidei, denominati Fans, e il cortisone, che attenuano la super infiammazione provocata dal coronavirus e perciò diminuiscono la distruzione dei nostri polmoni ad opera del nostro stesso sistema immune.

La tachipirina e i Fans vanno presi a inizio malattia; il cortisone invece è un antinfiammatorio molto più potente e che va somministrato solo a pazienti ospedalizzati o gravi, sotto ossigeno o ricoverati in terapia intensiva. Questi farmaci funzionano tutti.

Però, vanno dosati con cura perché l’infiammazione è il mezzo che il nostro organismo utilizza per combattere il virus, e quindi se tu inibisci l’infiammazione impedisci anche al nostro corpo di combattere il virus in maniera efficace.

Per questo, è bene somministrare gli antinfiammatori quando la malattia è già avviata, e il cortisone solo a pazienti gravi.

La verità è questa: al momento contro il virus non esiste cura efficace ma solo palliativi, e funziona solo la prevenzione, cioè il vaccino.

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