L’indagine su Mario Mori, ex generale dell’arma dei carabinieri, non è solo il doveroso, ed ennesimo, approfondimento giudiziario per ricostruire fatti e misfatti sul biennio stragista, ma anche l’occasione per un nuovo attacco del governo contro i pubblici ministeri antimafia.

I pubblici ministeri isolati

Prima di entrare nel merito delle contestazioni. Prima, cioè, di ricostruire la pista nera con alcuni insoliti incroci e i precedenti rilievi emersi sul conto dell’ex numero uno del Ros, bisogna partire da quanto accaduto poco dopo la notizia dell’invito a comparire notificato a Mori per concorso nelle stragi di mafia del 1993 che ha suscitato la reazione scomposta dell’ex generale: da 25 anni viene indagato, processato e puntualmente assolto.

Il governo guidato da Giorgia Meloni non ha perso tempo passando subito al contrattacco. Alfredo Mantovano, magistrato e sottosegretario con delega ai servizi, ha espresso a Mori vicinanza per «le contestazioni che gli vengono rivolte, delle quali mi ha messo a parte; per altro verso sconcerto, nonostante che decenni di giudizi abbiano già dimostrato l’assoluta infondatezza di certe accuse».

Il governo concede patenti di innocenza e colpevolezza in base a conoscenze e credenze con buona pace della divisione dei poteri. Uno strappo istituzionale che ha assunto contorni ancor più inquietanti quando, mercoledì mattina, il comando generale dell’arma dei carabinieri si è schierato con un comunicato, senza precedenti, che ha trasformato la frana in una slavina.

«Appresa la notizia dell’avviso di garanzia, con invito a comparire per rendere interrogatorio in qualità di indagato, nei confronti del Generale Mario Mori, nel pieno rispetto del lavoro dell’Autorità Giudiziaria, l’Arma dei Carabinieri esprime la sua vicinanza nei confronti di un Ufficiale che, con il suo servizio, ha reso lustro all’Istituzione in Italia e all’estero, confidando che anche in questa circostanza riuscirà a dimostrare la sua estraneità ai fatti contestati».

La radice di Mori

Tutto accade nella settimana del 23 maggio quando il paese ricorda il sacrificio del giudice Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo, degli agenti di scorta, uccisi dal tritolo mafioso a Capaci.

Ribadiamo un fatto non trascurabile, l’ex direttore del Sisde è stato processato nell’indagine trattativa stato-mafia, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e la perquisizione mai avvenuta del covo di Totò Riina, ma è sempre stato assolto. Alcuni elementi contenuti nell’invito a comparire erano già emersi negli altri procedimenti, ma nell’indagine fiorentina ce n’è sono di nuovi che saranno oggetto dell’interrogatorio di Mori, per ora rinviato. Secondo i pm Mori era al corrente del rischio stragista avendo avuto plurime anticipazioni, ma non ha fatto niente per evitarlo.

Lo avrebbe saputo «dal maresciallo Roberto Tempesta, del proposito di cosa nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione e, in particolare, alla torre di Pisa e, successivamente, da Angelo Siino, che lo aveva appreso da Antonino Gioè, da Gaetano Sangiorgi e da Massimo Berruti (ex manager berlusconiano e poi parlamentare di Forza Italia, morto nel 2018, ndr), durante il colloquio investigativo intercorso a Carinola il 25 giugno 1993, il quale gli aveva espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al Nord», si legge nell’invito a comparire.

Quello che è chiaro in maniera esplicita e sarà oggetto dell’interrogatorio, Mori è già sentito un anno fa come persona informata sui fatti, è che i pm si sono rimessi a cercare riscontri intorno alla cosiddetta pista nera che vede convergere nella strategia stragista la mafia, l’eversione neofascista, i servizi deviati e la massoneria di Licio Gelli. Una pista già battuta, ma che non ha portato giudiziariamente a nulla di accertato.

Cosa c’è nel passato che unisce i mondi e incrocia Mori? Lo dettaglia il magistrato Roberto Tartaglia (dal 2022 distaccato a palazzo Chigi), nel 2018, durante il processo sulla trattativa stato-mafia (poi naufragato con l’assoluzione) descrivendo la carriera di Mori come costantemente contro le regole.

«I risultati "inimmaginabili” ai quali siamo arrivati su vicende, risalenti, ma importanti del passato di Mori servono a definire in maniera chiara e forte la geometria di un personaggio che poteva e può compiere di tutto». Il magistrato ricordava poi la carriera di Mori al Sid allora guidato da Vito Miceli, descritto come un servizio deviato e parallelo. Con il suo brusco allontanamento da Roma che, per il pm, era da ricondurre alla vicinanza di Mori, poi scoperta, con le azioni dell’organizzazione eversiva di destra Rosa dei Venti. Una ricostruzione che resta curriculum parallelo dell’ex generale, il quale, al contrario, ha sempre rivendicato la correttezza delle sue condotte.

C’è un ultimo incrocio, un’altra coincidenza che ci porta sempre a Firenze. I magistrati vogliono capire chi c’era dietro la fuga di notizie sulle rivelazioni del pentito Salvatore Cancemi che «parlava di quelli di sopra», chiaro riferimento a Silvio Berlusconi. Lo scoop fu pubblicato da Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo su Repubblica nel 1994.

L’allora magistrata Ilda Boccassini, ora indagata per false informazioni ai pm, perché non ha rivelato quella fonte, aveva delegato l’indagine ai Ros, al comandante, Mario Nunzella, e al suo numero due, Mario Mori. Certi nomi, come i misteri, non passano mai.

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