Ciarlatano era e ciarlatano è rimasto. Bisogna solo capire se l'hanno imbeccato, se l'hanno gonfiato a dismisura per esibirsi in qualche talk show o - molto peggio - istruito a dovere per fare depistaggio. Il cosiddetto pentito Maurizio Avola sulla strage Borsellino ha spacciato menzogne, diffuso grossolane ricostruzioni, si è inventato date e luoghi per sostenere una verità insostenibile.

Come era prevedibile, direi scontato, adesso è stato indagato per calunnia dalla procura della repubblica di Caltanissetta, quella che è titolare delle inchieste sui massacri siciliani del ‘92. Ma più che la notizia in sé, sono inquietanti gli elementi affiorati dall'investigazione dei pubblici ministeri, quasi tremila pagine appena depositate che spiegano passo dopo passo l'incredibile storia confessata da Avola e consacrata in un libro di Michele Santoro dal titolo «Nient'altro che la verità».

È un'impostura dietro l'altra la cantata del pentito, inganno e delirio, resta solo da sapere - e non è poco - perché l'ha fatto. I segni di questa trama si rintracciano per certi versi già nel passato del mafioso catanese, che aveva iniziato la collaborazione con la giustizia nel 1994.

Qualche anno dopo fu espulso dal programma protezione testimoni (scoprirono che organizzava rapine) e per lungo tempo di lui si erano perse le tracce sino a quando - nel 2017 - si è presentato a Caltanissetta autoaccusandosi dell'autobomba. Ha collocato se stesso quella domenica in via D'Amelio, ha sussurrato nomi di altri boss mai sfiorati dalle indagini, ha negato la presenza di «soggetti estranei» a Cosa Nostra come invece ha già accertato più di una sentenza.

E, soprattutto, ha fornito una versione diversa da Gaspare Spatuzza, il pentito che con le sue rivelazioni aveva provocato la clamorosa revisione del processo Borsellino e la scarcerazione di sette uomini innocenti condannati all'ergastolo. Una versione dei fatti sul 19 luglio, così contrastante e così tardiva, che ha subito insospettito i magistrati.

È comunque cominciata l'attività di verifica su ciò che Avola aveva messo a verbale. Sorprendenti gli esiti dei riscontri, specialmente sul posto dove giura di essere stato presente alla vigilia della grande esplosione, un garage dove venne «caricata» di tritolo l'auto che fa saltare in aria Borsellino. Un garage che è ai piedi di Montepellegrino, in via Villaseviglios numero 17.

Portato in giro per Palermo, Avola ha individuato un altro garage, a diversi chilometri dal primo, in via Gaspare Ciprì, nel quartiere Brancaccio. Un’altra Palermo. Uno svarione che ricorda un altro famoso tentativo di depistaggio avvenuto 39 anni fa proprio in questi giorni di settembre, una settimana dopo l'uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Alla porta del giudice Falcone bussò un certo Giuseppe Spinoni, camionista bergamasco di origini calabresi.

E anche lui giurò di avere visto in faccia i sicari del generale-prefetto, «riconobbe» nelle foto segnaletiche Nitto Santapaola, fornì dettagli precisi sulla posizione dei killer. I carabinieri lo condussero a Porta Carini, l'ingresso del mercato del Capo. E Spinoni cominciò a girare il suo film. Però l'omicidio del generale era avvenuto da tutt'altra parte, non a Porta Carini ma in via Isidoro Carini.

Le invenzioni sul 19 luglio 1992

Il camionista Spinoni fu arrestato per calunnia, più fortunato per il momento Avola che ha indicato un garage probabilmente visionato sul web, un locale dove l'autobomba è stata solo posteggiata per qualche giorno. Poi ha svelato improbabili particolari sul momento dell’esplosione, con lui vestito da agente mentre dà il segnale a Giuseppe Graviano di attivare il congegno.

E poi ancora la panzana del gesso, Avola dice che aveva una falsa ingessatura per crearsi un alibi, le indagini hanno appurato - negli schedari ospedalieri di Catania - che il gesso era vero per una frattura all'avambraccio sinistro. Tutte «prove» delle sue balle, in gran parte raccolte fra il 2018 e il 2019 e altre più recentemente. Solo che, nel frattempo, è andato alle stampe il libro di Santoro con quel titolo «definitivo» e con certezze (televisive) che mettevano in dubbio le ultime indagini.

«È un racconto in grado di rivoluzionare trent'anni di storia del nostro paese», ha dichiarato Santoro. In realtà Avola più che portare luce ha intorbidito ancora di più una vicenda italiana segnata da troppi falsi pentiti, da manovre partorite da fazioni dell'intelligence, da scorribande sbirresche, da opacità giudiziarie.

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