Tra realtà che si sfaldano e identità in frantumi, l’opera di Philip K. Dick conquista il canone letterario con i Meridiani Mondadori: una voce visionaria e instabile, capace di anticipare il nostro disagio nel mondo virtuale, tra fantascienza, misticismo, paranoia e un’ironia profondamente umana
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola.
È un’esperienza inquietante provare a scrivere questo pezzo su Philip K. Dick – in occasione dell’uscita delle Opere scelte nei Meridiani Mondadori – subito dopo aver chiesto a una intelligenza artificiale di farlo al posto mio, e dopo aver letto così sedicimila battute ordinate e coerenti, scritte con una lingua lineare, solo a tratti un po’ scialba o troppo enfatica, in cui però la Ia è riuscita a condensare adeguatamente, come richiesto, un articolo sul definitivo riconoscimento letterario di uno scrittore eretico come Dick.
O, per metterla con le parole che ha scelto lei, «la canonizzazione finale, anche in Italia, di un autore di fantascienza prolifico, visionario e irripetibile, che negli anni Sessanta e Settanta ha messo in crisi ogni idea consolidata di canone».
Attività dickiana
L’articolo che l’Ia ha compilato è un collage non indecoroso dei principali discorsi che negli ultimi sessant’anni gli esseri umani hanno costruito attorno all’opera del grande scrittore californiano. Sarebbe inutile farvelo leggere, potete facilmente ottenerne uno simile per conto vostro.
Quello che ha restituito a me è condito di una manciata di piccoli errori, l’Ia sbaglia per esempio il numero di romanzi presenti nel Meridiano (nove invece di undici), così come sembrano completamente inventati alcuni titoli, date e cenni biografici (Dick, che odiava viaggiare e partecipò a pochissimi convegni, sarebbe stato invece un «instancabile conferenziere»).
Ci sono poi dei passaggi pressoché impenetrabili, che sembrano usciti dalla tesina di un ragazzo del liceo con un’ormonale attrazione per le circonvoluzioni: «La poetica dell’autore si configura come un’ontologia esistenziale dove l’identità si smargina nell’ologramma paranoide del post-reale». Sfotto l’Ia avendo poco da ridere, segnalo i suoi cortocircuiti sapendo che al prossimo aggiornamento li risolverà. E non riesco certo a dimenticare il fatto che lei ci ha messo 15 secondi a chiudere tutto, e che invece a me toccherà stare al computer, bene che vada, per un giorno intero. Mi consolo dicendomi che la lettura di un saggio su Dick redatto da un elaboratissimo software è un’attività perturbante e pienamente dickiana, e cerco di convincermi che la cosa in qualche modo mi arricchirà.
Le Ia generative funzionano, come sappiamo, come «macchine statistiche per il riconoscimento di strutture». Divorano (più o meno indebitamente) una mole impressionante di dati e da lì riescono a estrapolare la risposta più plausibile a ciò che è stato chiesto loro di scrivere. Il problema, in questi casi, è che è molto raro che gli autori di cui vengono rielaborati i testi siano poi esplicitamente citati.
Ma un occhio allenato può riconoscere anche così, in questi articoli artificiali, la traccia fantasma degli scrittori umani. Nel mio caso, la fonte dell’Ia sono state evidentemente le riflessioni di chi, in Italia, ha portato alla luce la complessità del pensiero e dell’opera di Dick già da qualche decennio, sfidando lo scetticismo dell’accademia e dell’editoria mainstream.
Tra gli altri: Carlo Pagetti (che negli anni Duemila curò – con Luca Briasco e Mattia Carratello – la ripubblicazione di Dick per Fanucci), Umberto Rossi (che ha scritto The Twisted Worlds of Philip K. Dick), Antonio Caronia e Domenico Gallo (con il loro dizionario La macchina della paranoia, per Agenzia X). Autori che l’Ia ha diligentemente plagiato, nel suo pezzo. D’altra parte, mi dico, li saccheggerò anche io.
Un tratto tipico di PKD era proprio quello di mettere in scena realtà multiple, soggettive e instabili, in cui i confini tra vero e falso, tra interiore ed esteriore, si confondono e si disgregano generando profondissima incertezza. Quando raccontava di androidi, o di qualche altro tipo di intelligenza artificiale, erano vicende che, invece di concentrarsi sulla tecnica, finivano per sollevare dubbi sull’autenticità dei sentimenti, della memoria, della coscienza e del pensiero.
L’identità può essere costruita o manipolata tecnologicamente?, si chiedeva. E cosa ci rende davvero esseri umani? Con questo incipit non voglio quindi suggerire che Dick abbia presagito l’arrivo di ChatGpt, perché sarebbe fargli un torto. Dick non è mai stato il tipo di scrittore di fantascienza che ambiva a essere anche un futurologo, o un indovino. I pronostici sulle magnifiche sorti e progressive, o le profezie di più cupe distopie, non erano il suo campo da gioco.
Le questioni scientifiche le usava come suggestione, per la loro forza evocativa, ma robot, ologrammi e armi smaterializzanti erano per Dick più che altro dispositivi di pensiero magico; non si prendeva il disturbo di giustificarne il funzionamento. Allo stesso modo, la sua attenzione non era rivolta tanto al futuro, ma all’esistente, alla macchina umana, al modo in cui funzionano le nostre menti, alle illusioni, alle manipolazioni, agli slittamenti dei piani di realtà.
Se Dick ha predetto qualcosa, non è l’Ia di per sé, ma l’attrazione e il disagio che inevitabilmente proviamo per il mondo virtuale in cui oggi siamo immersi, e il modo particolare e nuovo in cui tutto questo riesce a farci sentire fuori posto.
Cadere a pezzi
Philip K. Dick apparteneva a quella generazione di scrittori che, nati nel margine della fantascienza, riuscirono a rompere i confini imposti dal mercato e conquistarono il centro della letteratura considerata maggiore. Come Kurt Vonnegut, Ursula K. Le Guin o, in un’altra chiave, J.G. Ballard, Dick affermò la dignità della speculative fiction mescolando registri e riferimenti eterogenei: l’immaginario popolare e il pensiero gnostico, la cultura di massa e il misticismo, le pubblicità televisive e i classici della letteratura.
In Dick si trova traccia di Kafka, amato per la sua prosa spiazzante e frammentaria, ma anche i monologhi interiori di Joyce, che cercò di emulare in certi flussi di coscienza frenetici, oltre che la vertigine metafisica di Borges, che gli offriva una visione del mondo come sogno, illusione, labirinto. Il risultato di queste compresenze è uno stile al tempo stesso drammatico e parodico, intriso di ironia.
Nel suo approccio dissacrante Dick si scagliava contro le rigidità dei fanatismi, dei poteri autoritari e dell’ideologia del consumismo: una voce che proprio Pagetti ha definito swiftiana, per la capacità che aveva di unire tragedia e satira in una forma narrativa sempre sul punto di sgretolarsi, ma sorprendentemente coerente nella sua instabilità. Una voce di cui autori complessi e rispettati come Thomas Pynchon sono stati grandi debitori.
«A me piace costruire universi che cadono a pezzi», disse una volta. «Mi piace osservarne lo sfaldamento, e vedere come i personaggi affrontano la crisi. Ho una segreta attrazione per il caos». È il passaggio di un discorso del 1978, Come costruire un universo che non cada a pezzi dopo due giorni (aveva un talento anche per i titoli), una lectio magistralis, probabilmente mai pronunciata in pubblico e diffusa solo dopo la sua morte.
Nell’incipit raccontava di essere stato intervistato a Disneyland da una giornalista della tv francese (“an amazing French chick”, dirà a un amico: aveva l’innamoramento facile). Quale migliore cornice del parco divertimenti più sognato del mondo – non distante da casa sua – per riflettere sui conflitti tra realtà e finzione? Dick raccontava – o invitava il lettore a immaginare – di aver parlato del ritorno del fascismo accomodato su una delle tazze rotanti del Cappellaio Matto e di aver discusso l’impatto del Watergate galleggiando sulla nave di Capitan Uncino.
Da lì allargava poi il discorso sugli obiettivi della scrittura fantascientifica, sulle sue letture dei filosofi presocratici e tracciava una vertiginosa analogia tra la propria biografia e gli episodi narrati negli Atti degli Apostoli. Del video di quella intervista, inutile specificarlo, non è rimasta traccia.
Ma in quel discorso di poche pagine, scritte forse per nessuno, c’è tutto il Dick che bisogna conoscere, la sua poetica dalla percezione cangiante, fatta di epifanie che sfuggono a una comprensione compiuta, la sua fede mescolata a paranoia, la sua intelligenza gentile e la sua ironia un po’ goffa.
Il Meridiano
I due volumi delle opere scelte sono stati curati da Emanuele Trevi – che a Dick aveva dedicato anche uno spettacolo, qualche anno fa – e da Paolo Parisi Presicce. La scelta dei romanzi ricalca in parte la selezione in tre volumi già pubblicata dalla Library of America e curata da Jonatham Lethem – che sulla sua ossessione per Dick ha pubblicato una raccolta di saggi, Crazy Friend.
Tra i quasi 50 romanzi scritti da Dick, contando anche quelli postumi, i due volumi di Mondadori ne raccolgono 11. Non c’è invece spazio per nessuno degli oltre centoventi racconti. Paolo Parisi Presicce ha corredato una poderosa bibliografia, e insieme a Trevi ha compilato un’ampia selezione di “Notizie sui testi”, che riportano molti passaggi dell’Esegesi di Dick: è il diario-fiume di ottomila pagine, geniale, sconnesso e incoerente, pregno di considerazioni e autoanalisi sui suoi romanzi e la sua vita.
Dick lo iniziò a scrivere, nel cuore della notte, per spiegare a se stesso un misterioso evento che gli accadde il 3 marzo 1974, una rivelazione divina o una crisi psicotica da cui non si riprese mai del tutto. Ci sono poi 40 pagine di “Cronologia” curate da Emmanuel Carrère, un altro devoto di Dick, provenienti dalle ricerche fatte per il suo Io sono vivo e voi siete morti.
Evito di snocciolare qui le sinossi complete di tutti i romanzi; provo però a mettere una breve etichetta sopra a ognuna di queste undici storie, nello stesso modo in cui lo farebbe una macchina. Occhio nel cielo (1957): otto persone condividono mondi mentali deformati dopo un sospetto incidente scientifico. Tempo fuori luogo (1959): un uomo, che vive in un tranquillo sobborgo Usa, scopre che il mondo attorno a lui è una costruzione mentale imposta dall’esterno.
L’uomo nell’alto castello (1962): gli Stati Uniti hanno perso la guerra, ma un libro proibito sussurra un’altra verità. Le tre stigmate di Palmer Eldritch (1965): un imprenditore alieno diffonde una droga che altera spazio e tempo, e crea divinità sintetiche. Gli androidi sognano pecore elettriche? (1968): un cacciatore di taglie insegue androidi in un mondo arido, senza più empatia. In Ubik (1969), tra morte e vita, una sostanza misteriosa cerca di tenere unito tutto, ma la realtà si sfalda, rimane solo la pubblicità. Scorrete lacrime, disse il poliziotto (1974) racconta di uno stato poliziesco dove una celebrità perde la propria identità, la libertà e il senso di realtà.
In Un oscuro scrutare (1977), un agente sotto copertura finisce per spiare sé stesso, una dissoluzione identitaria tra sostanze alternati e delirio completo. Con Valis (1981) comincia l’ultima fase della produzione dickiana, segnata dall’esperienza mistica del 1974. Una voce cosmica invade la mente del protagonista. L’invasione divina (1981) riprende alcune delle stesse ossessioni: Dio è stato esiliato e tenta di rientrare nel mondo attraverso la nascita di un bambino su un pianeta lontano. Nella Trasmigrazione di Timothy Archer (1982), una donna racconta la vicenda di un vescovo anglicano ossessionato dall’aldilà. Elencare così, in maniera pur approssimativa, i capolavori di Dick, è un esercizio ubriacante, e mi chiedo che effetto faccia, a chi non lo conosce, leggere queste righe.
Il pezzo pregiato del Meridiano è la prefazione, dove Emanuele Trevi analizza con profondità e trasporto la complessità di PKD. In queste cento pagine si avverte un rispetto profondo, quasi commosso, per la vocazione letteraria di Dick, si intuisce l’amore di Trevi non tanto per ciò che Dick rappresenta, ma per ciò che ha scritto, per il modo in cui la sua voce, incerta eppure visionaria, è riuscita a toccare qualcosa che ci riguarda tutti.
Trevi accosta Dick e Pasolini: «Due scrittori dal piglio decisamente apocalittico», con una lettura pungente della contemporaneità, in continua e imprevedibile evoluzione, autori che a un certo punto della loro carriera hanno sentito il bisogno di costruire un doppio narrativo di loro stessi, entrambi ossessionati dalla verità come ferita e come enigma, entrambi esclusi dal potere e attratti dalle sue forme occulte.
Altri simulacri
Come Trevi spiega perfettamente, Dick inseguì il sacro come una specie di virus narrativo, qualcosa che si manifesta in sogni, visioni, voci interiori, nella forma di un’invasione che non si può né respingere né decifrare. Ma forse è impossibile capire appieno la passione che attraversò la vita di questo scrittore prolifico e tormentato senza prendere in considerazione anche un fatto apparentemente più triviale, l’assunzione cioè di anfetamine che lo accompagnò, secondo i biografi, sin dall’adolescenza, quando le pillole gli vennero prescritte per attacchi di panico e agorafobia.
Dick si lamentava spesso dello scarso ritorno economico del suo lavoro. Il mondo ammaliante della fantascienza, diceva, “attira lettori, editori, scrittori. E nessuno di loro fa soldi”. Per campare bisognava allora puntare sulla quantità. E la quantità richiedeva anfetamine. Dick scrisse a getto continuo, fu prolifico a livelli olimpionici, a costo di creare a volte, soprattutto agli esordi, testi di scarso interesse: «I racconti da me inviati alle riviste erano mediocri».
Nonostante questo, rivendicò comunque, con malcelato orgoglio, i risultati disumani della sua incredibile ansia performativa: «Nel ’53 ho venduto racconti a quindici riviste diverse. In un mese ne uscirono sette»; «In due anni, ’63-’64, ho scritto e venduto dodici romanzi«. L’abuso di sostanze continua anche dopo la consacrazione e i premi del settore. Negli anni Settanta rivelò di aver scritto in stato di trance, in 48 ore, le prime 150 pagine di Scorrete lacrime, disse il poliziotto.
C’è poi un’altra intima contraddittorietà che bisogna conoscere per capire la sua opera. Dick si innamorò da giovanissimo della fantascienza, ma avrebbe voluto essere anche uno scrittore realista. Ci provò a più riprese, scrisse voluminosi romanzi mainstream di ambientazione moderna e di puro scavo psicologico. D’altra parte l’editoria tout court avrebbe pagato molto meglio di quella, più scalcagnata, della sci-fi. Ma in vita non riuscì mai a farsi pubblicare questi libri, a eccezione di uno solo, con un altro titolo evocativo, Confessioni di un artista di merda.
Eppure anche queste storie, al pari di alcuni suoi migliori romanzi di fantascienza, erano ambientate nei sobborghi della Bay Area, offrivano una visione cupa della società americana del Dopoguerra, mostravano personaggi intrappolati in vite fallimentari, senza punti di riferimento morali. Ma, al contrario di quelli “di genere”, mancavano della scintilla, del nucleo gravitazionale capace di trasformare una serie di eventi in una vera opera letteraria.
Una cosa che spesso è stata rinfacciata a Dick è invece la staticità dei personaggi femminili. Se è vero che le donne nei suoi romanzi hanno un rilievo inedito per la letteratura sci-fi dell’epoca, e a volte sono figure complesse che evadono dagli stereotipi, troppo spesso però si spengono nella figurina bidimensionale della dark-haired girl seducente e spietata. Dick ne era ben consapevole. «Ho la tendenza a scrivere sempre dello stesso tipo di donna, la belle dame sans merci. È fredda, estremamente intelligente, molto bella, assolutamente crudele».
Si dice che a un certo punto, negli ultimi anni, Dick abbia cambiato approccio grazie a Ursula K. Le Guin, collega, autrice di fantastico e tagliente critica femminista. In un saggio gli rinfacciò il fatto che le sue donne fossero solo simboli – «dee, streghe, megere, puttane» – e non donne. Dick ascoltò, si chiamarono, si scrissero. Mentre lui stava terminando La trasmigrazione di Timothy Archer, e delineava con affetto una figura umana e intensa come quella di Angel Archer, coprotagonista femminile, scriverà a Le Guin: «È il momento più felice della mia vita, Ursula, incontrarmi faccia a faccia con questa donna brillante, combattiva, arguta, educata, tenera (...) e probabilmente non l’avrei mai scoperta, se non fosse stato per la tua analisi delle mie opere».
In un’altra occasione Ursula Le Guin raccontò di aver scoperto solamente in età adulta che lei e Dick avevano frequentato lo stesso liceo, a Berkeley, diplomandosi nello stesso anno. Ma nessuno, né lei né i suoi amici, ricordava di averlo visto a scuola.
Chissà se Philip K. Dick è esistito davvero.
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