Il gruppo Facebook Mia Moglie non esiste più. Con i suoi 32mila iscritti, era diventato un luogo di condivisione di foto di donne inconsapevoli e di commenti sessisti e violenti. Dopo le segnalazioni e le pressioni politiche, Meta lo ha rimosso per «violazione delle policy contro lo sfruttamento sessuale di adulti». La vicenda, denunciata nei giorni scorsi dalla scrittrice Carolina Capria, ha riacceso il dibattito sul ruolo delle piattaforme nella prevenzione della violenza digitale.

La decisione di Meta

«Abbiamo rimosso il gruppo Mia Moglie per violazione delle nostre regole», ha dichiarato un portavoce della società, precisando che non sono tollerati contenuti che «promuovono violenza sessuale, abusi o sfruttamento» e che in casi simili le informazioni possono essere condivise con le forze dell’ordine. La chiusura arriva a poche ore dalla richiesta ufficiale del gruppo Pd in Commissione Femminicidio, che aveva sollecitato un intervento immediato.

Le reazioni politiche

Le reazioni politiche non si sono fatte attendere. «Basta tolleranza del sessismo e della violenza contro le donne, altrimenti è complicità», hanno commentato le parlamentari dem Sara Ferrari, Antonella Forattini, Valentina Ghio, Cecilia D’Elia e Valeria Valente insieme al senatore Filippo Sensi, chiedendo a Meta di vigilare sulla probabile riapertura del gruppo sotto altri nomi.

Sulla stessa linea la capogruppo di Italia Viva al Senato, Raffaella Paita, che ha parlato di «un modello di violenza subdolo e sessista» e ha invitato a perseguire eventuali reati: «Questi comportamenti umiliano le donne e vanno denunciati senza tregua».

Accanto alle prese di posizione politiche, la denuncia della scrittrice e attivista Carolina Capria ha dato visibilità a un fenomeno che non si limita al solo gruppo Mia Moglie. «I gruppi dove ci si scambiano foto di donne – mogli, fidanzate, sorelle, cognate, perfino sconosciute – sono decine», ha scritto sul suo profilo Instagram L’ha scritto una femmina, sottolineando come le segnalazioni alla polizia postale «ci sono sempre state», ma spesso senza esiti concreti.

Capria ha definito quanto accade «uno stupro virtuale», spiegando che «l’eccitazione viene sempre dalla mancanza di consenso». Per questo, secondo lei, non basta la chiusura di un singolo gruppo: «Si potrebbe e dovrebbe fare un’inchiesta, ma occorre che qualcuno con le competenze se ne faccia carico».

La scrittrice insiste soprattutto sulla radice culturale del problema: «Trattandosi di un problema sistemico, la soluzione definitiva non passa dalla punizione di un comportamento ma dal mutamento della struttura di pensiero». Al centro, scrive, c’è la maschilità come modello tossico di dominio: «Bisogna smontare e rimontare un’idea, distruggere un modello, riformulare un’educazione. È un lavoro lunghissimo e complicatissimo».

© Riproduzione riservata