Sono passati 32 anni dalla morte del calciatore del Cosenza Donato Bergamini, conosciuto come Denis, ma non c’è ancora un colpevole. A distanza di tanto tempo, il prossimo 25 ottobre inizierà un nuovo processo. L’unica imputata si chiama Isabella Internò ed è l’ex fidanzata calabrese del centrocampista originario della provincia di Ferrara, ucciso il 18 novembre del 1989. È una storia che incrocia ingiustizie, ostacoli e nemici della verità.

Ma chi era nella vita Bergamini? Lo hanno ricordato i suoi amici di infanzia, Luca Simoni e Massimo Fergnani, così: «Per lui il calcio veniva al primo posto, era rimasto sempre lo stesso ragazzo semplice e alla mano, legato alla famiglia». Tutti lo hanno ricordato come persona eccezionale e senza macchie. Cosa c’è di rilevante in queste testimonianze? Sono state raccolte dagli inquirenti appena tre anni fa, a quasi trent’anni dalla sua morte, mentre negli anni avanzavano le ipotesi più disparate sulla vita e sulla fine del «calciatore suicidato», per dirla con il titolo del libro che gli ha dedicato Carlo Petrini.

Le indagini a vuoto

Dal giorno della morte di Denis Bergamini ci sono stati diversi procedimenti aperti e poi archiviati. La tesi del suicidio è sempre stata quasi l’unica a rimanere in piedi.

Due giorni dopo la tragica morte i giudici della procura di Castrovillari aprirono un procedimento nei confronti di Raffaele Pisano, l’autista del camion sotto le cui ruote fu ritrovato il corpo del calciatore, accusandolo di «avere, per colpa, per imprudenza, negligenza e imperizia nella guida, cagionato la morte di Bergamini Donato, investendolo mentre era fermo nella carreggiata».

Il giudizio a carico di Pisano si conclude il 4 luglio del 1991 con una sentenza di assoluzione in primo grado «per non aver commesso il fatto». Dopo il ricorso presentato dalla procura generale di Catanzaro, il dispositivo viene confermato anche in appello, facendo rimanere in piedi, dunque, la tesi del suicidio del calciatore.

La battaglia della famiglia

Domizio Bergamini è il padre di Donato e insieme alla sua famiglia non ha mai accettato l’ipotesi del suicidio. Per questo nell’aprile del 1994 si è presentato negli uffici della squadra mobile di Cosenza per rendere una deposizione a seguito della quale i poliziotti chiederanno alla procura di Castrovillari di riaprire le indagini e l’autorizzazione per mettere sotto controllo i telefoni di Isabella Internò, dei suoi più stretti familiari e dello stesso Raffaele Pisano. È successo nel 1994, esattamente 27 anni fa, ma le indagini sono state un colabrodo.

Il giudice ha autorizzato l’ascolto delle conversazioni della Internò e degli altri familiari, ma qualcosa non ha funzionato. Una nota della squadra mobile di Cosenza inviata alla procura, che risale al 2 agosto del 1994, rivela che le operazioni di intercettazione, in realtà, non erano mai partite, perché «da verifiche tecniche era emerso che gli utenti si trovano in vacanza in località al momento sconosciute». E, come si legge in una recente informativa della polizia giudiziaria che ha riaperto tre decenni dopo il caso Bergamini, «agli atti non esiste documentazione di un prosieguo delle indagini delegate dall’autorità giudiziaria».

Internò e familiari si trovavano all’estero e allora niente intercettazioni e nessuna verifica della denuncia presentata dai familiari. Così il 2 febbraio del 1995 è arrivato un nuovo decreto di archiviazione.

Il tempo perduto

Il caso è stato riaperto ancora una volta nel 2011 grazie all’allora avvocato della famiglia Eugenio Gallerani, ma tre anni dopo è arrivata una nuova richiesta di archiviazione. L’ennesimo giro a vuoto. Ma in quel terzo procedimento archiviato per la prima volta è stato contestato a Isabella Internò il reato di omicidio volontario in concorso con persone non ancora identificate, mentre al camionista, Raffaele Pisano, i reati di favoreggiamento personale nei confronti degli autori dell’omicidio volontario di Donato Bergamini e di false informazioni al pubblico ministero.

Si è arrivati così al quarto procedimento che viene aperto, nel 2017, quando l’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, lo stesso del caso Cucchi, ha consegnato nuovi elementi. Inizialmente è stato nuovamente indagato Raffaele Pisano, ma l’autista del camion, 32 anni dopo il “delitto impunito”, è uscito di scena dalle indagini perché ritenuto totalmente estraneo. L’unica imputata, l’ex fidanzata, è accusata di «concorso in omicidio volontario in pregiudizio di Donato Bergamini, aggravato dalla premeditazione nonché dall’avere agito per motivi abbietti o futili e dall’aver agito con crudeltà». Fatti che, secondo gli inquirenti, avrebbe commesso insieme a complici ancóra ignoti.

Nuove verità

Queste conclusioni gli investigatori della polizia giudiziaria della procura di Castrovillari le avevano ipotizzate fin da quando l’ex procuratore, Eugenio Facciolla, aveva fatto riesumare, su richiesta dell’avvocato Fabio Anselmo, il corpo di Bergamini. Grazie alla perizia si era scoperto che l’ex calciatore era morto per «soffocamento». Le conclusioni sono state messe nero su bianco in una informativa che è lunga più di un migliaio di pagine, in cui gli inquirenti affermano che «a carico di Isabella Internò sussistono fondati indizi di colpevolezza quale ideatrice, organizzatrice e partecipe dell’omicidio di Donato Bergamini, con il concorso di altri elementi del suo nucleo familiare».

Non solo. I poliziotti ritengono anche che i genitori della Internò «fossero a conoscenza del piano criminoso della figlia, che la loro partecipazione non può essere ritenuta una mera connivenza passiva, ma al contrario si evince un contributo partecipativo di essi alla realizzazione del reato». E pure che «i complici della donna, ovvero i due giovani visti da Francesco Forte (un testimone oculare, ndr) sulla scena del crimine sùbito dopo la commissione del reato, si ritiene che essi siano da ricercare sempre nella famiglia più stretta della Internò, ma i dati raccolti non consentono di addivenire all’individuazione di costoro».

Sullo sfondo della vicenda restano trent’anni di indagini fatte male, false piste e omissioni che hanno portato a fare ipotesi, poi smentite, sulle cause che hamno portato alla morte del calciatore ferrarese, come il traffico di stupefacenti, il totonero, l’acquisto di una Maserati di proprietà di un boss di Cosenza, Antonio Paese. Tutte ipotesi non suffragate da elementi di prova.

Così come non c’è alcuna prova sul ruolo attivo di quello che per tutti questi anni è stato l’unico imputato del delitto, Raffaele Pisano, l’autista del camion. Oggi gli inquirenti ritengono sì che «l’uomo abbia mentito fin dal primo momento». Ma ha soltanto «adeguato e allineato la sua versione alla conclusione alla quale stavano indirizzandosi i carabinieri di Roseto Capo Spulico, ovvero che Donato Bergamini, così come aveva riferito la sua fidanzata, testimone oculare del gesto, si era suicidato buttandosi sotto l’autocarro che lo aveva trascinato per circa 60 metri». E, dunque, se ha mentito per tutti questi anni, lo ha fatto esclusivamente perché la tesi del suicidio avrebbe alleggerito la sua posizione.

Una storia torbida

Infine, c’è la posizione, ora archiviata, del marito di Internò, Luciano Conte, a rendere i contorni di questa storia ancora più torbida. L’uomo è stato indagato per favoreggiamento, prima di uscire anche lui dall’inchiesta. Resta il fatto che secondo i detective calabresi: «Luciano Conte ha indirizzato la moglie su cosa dire e su come dirlo e su cosa, invece, tacere, ponendo in essere una condotta caratterizzata dalla volontà di alterare la ricostruzione della verità e l’accertamento dei fatti». Però, concludono gli investigatori: «Non sappiamo a quale periodo i coniugi si stessero riferendo, ovvero se all’epoca dei fatti, quando Luciano Conte era in servizio presso la squadra mobile della questura di Palermo, oppure in occasione della riapertura delle indagini nel 2011, allorquando l’uomo lavorava presso la sezione di polizia giudiziaria della procura di Paola».

Tra errori e ritardi ora inizia dunque un nuovo processo. «In questo caso chi avrebbe dovuto aiutare nella ricerca della verità e della giustizia piuttosto l’ha ostacolata, soprattutto nelle prime fasi delle indagini dopo la morte di Denis Bergamini», dice a Domani l’avvocato Fabio Anselmo. «A partire dal fatto che il pubblico ministero dell’epoca, il dottor Abate, non ha fatto disporre immediatamente l’autopsia, ma si è accontentato di un accertamento della morte effettuata all’obitorio che tutt’oggi appare incomprensibile». Continua Anselmo: «quell’esame descriveva fratture, uno schiacciamento toracico e delle lesioni che non esistevano. Proprio questi elementi assolutamente non corrispondenti al vero, come sì è scoperto quasi 30 anni dopo, hanno portato a suffragare quella falsa verità propugnata da Internò, ovvero del trascinamento del cadavere per 60 metri». E invece, spiega ancora il legale: «La verità era emersa già quaranta giorni dopo la morte, quando è stata eseguita l’autopsia, dalla quale si è scoperto che il corpo risultava integro, e che aveva solo una parte di addome schiacciata dalla ruota del camion». Ma la giustizia per quella morte non è ancora arrivata.

© Riproduzione riservata