Un evento al quale prenderanno parte 32 club di 21 nazioni diverse, con almeno una rappresentanza per ogni confederazione continentale. Ma gran parte delle società guadagneranno meno del previsto. E l’Inter presenta Chivu sulla nuova panchina senza avere mai provato nemmeno un’amichevole con la Solbiatese
Dalle premesse e dalle promesse alla realtà del Mondiale per club, soprattutto a livello economico, passa più o meno la differenza che in genere c’è tra la propaganda e la verità. Nel caso della nuovissima competizione, va fatta una tara che è più della metà rispetto a quanto detto sino a un anno fa, soprattutto a livello economico, ovvero a livello del denaro che arriverà nelle casse dei club partecipanti.
Ora: non saranno i 50 milioni appunto promessi, ma decisamente meno – per gran parte delle società, fra le quali tutte quelle non europee, la presenza vale meno di 15 milioni – anche se, in fondo, si tratta di cifre che nessuno dei club, in estate, guadagnerebbe in altro modo, e allora a tutti va più che bene così, e a chi andrà avanti nel torneo potrà arrivare a 50, 70, magari anche 100 complessivi, milioni non esattamente da buttare via, anzi.
La precarietà degli organici
Ecco: quando si parla del Mundial de Clubes 2025, perché così si chiama all’anagrafe della Fifa, lo si fa appunto ragionando di denaro, e nemmeno tanto di aspetti tecnici, perché poi in alcuni casi sarà, per qualche allenatore di fresca nomina (Chivu su tutti) la prima partita su una nuova panchina, senza avere mai provato nemmeno un’amichevole con la Solbiatese – anche se i grandi club, ormai, le Solbiatese di turno non le calcolano più nemmeno di striscio in piena estate – e sicuramente qualcuno dei giocatori più iconici alla fine, inevitabilmente, non sarà in forma.
Senza contare che gli stessi organici, in questo periodo di mezzo (sicuramente in Europa) fra una stagione e l’altra, saranno diversi da quelli che poi diventeranno a settembre, quando il calciomercato vero e proprio – e non questa finestra di una settimana e spiccioli per il Mondiale – terminerà e si inizierà a ragionare, senza più scuse, sulla nuova annata.
Peccato. Peccato perché, a livello puramente filosofico, quello che corre il rischio di diventare un carrozzone – poi magari sarà davvero bellissimo e irrinunciabile, chissà – andrebbe considerato per quello che è, vale a dire il primo torneo veramente globale del calcio. Già: un evento al quale prenderanno parte 32 club di 21 nazioni diverse, con almeno una rappresentanza per ogni confederazione continentale. La suggestione non è di poco conto, se ci si pensa, anche perché i club rappresentano prima sé stessi che i Paesi dal quale provengono, e questo sostanzialmente significa che non ci saranno, a margine delle partite, tutti i riti e i cerimoniali tipici delle partite tra nazionali, ovvero inni che risuonano e bandiere che sventolano, di fatto retaggi puramente nazionalisti che ancora nello sport – nel calcio come nei grandi eventi come le Olimpiadi e ovunque si gareggi in una nazionale, appunto – esistono e che vengono serenamente accettati perché l’agonismo è una sublimazione dei conflitti.
La geografia
Vero, anche se poi ci si rende conto che, come nel caso del conflitto russo-ucraino, gli atleti magari possono competere, ma certe bandiere poi non devono sventolare, perché la sovrastruttura è sempre politica. Ecco, il Mondiale per club, dove questo legame patrio non esiste, rappresenta così un evento di respiro internazionale e, forse, davvero internazionalista, anche se poi è necessario tornare sulla terra ed evitare gli entusiasmi, perché questo peculiare internazionalismo è un’apertura teorica raggiunta solo per eterogenesi dei fini, considerando che il torneo lo disputeranno club che sono già egemoni nei rispettivi campionati, a loro arriverà il denaro della Fifa e questo contribuirà ad aumentare la sperequazione in patria, rendendo i ricchi – magari indebitati, ma tant’è – ancora più ricchi.
Gli altri? S’arrangiassero. Allora, con inguaribile ottimismo, prendiamo il Mondiale per Club come un meritevole materiale didattico, che almeno permetterà a qualcuno in più di piazzare correttamente sulla cartina Auckland, Monterrey, Ulsan, di capire che Arabia Saudita (Al Hilal, quello di Inzaghi) ed Emirati Arabi Uniti (Al Ain) non sono la stessa cosa, insomma: di imparare un po’ di geografia, che tanto chi l’insegna più?
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