Una mattina mi son svegliato e ho trovato gli invasori. Era di sabato e nella casa all'ultimo piano del Palazzo Standa, a Agrigento, c'era un frenetico viavai di adulti. Tanti adulti quanti non ne avevo mai visti tutti insieme in vita mia. Quanti non ne avevo mai visti piangere, soprattutto, col mio sguardo da bambino di 6 anni che ancora osservava il mondo dal basso. Tanti adulti a vagare disperati tra il salone e il corridoio che portava verso la zona notte.

E tante voci straziate, incomprensibili tranne una. Quella di Enza, la domestica che veniva a dare una mano di tanto in tanto, e che in dialetto diceva: «Sono morti tutti bruciati». Quella mattina del 1972 aveva anche una data, ma nella memoria frammentaria rimane etichettata come “il giorno dopo”. Dopo il 5 maggio, la sera in cui il DC8 AZ 112 dell'Alitalia in volo da Roma a Palermo andò a schiantarsi contro Montagna Longa, mentre si preparava a atterrare sulla pista di Punta Raisi. A bordo c'erano 108 passeggeri e 7 componenti dell'equipaggio. Nessun superstite. E fra le vittime anche Alfonso Russo e Giuseppe Russo. Mio padre e mio nonno.

Capivo che qualcosa di grave fosse accaduto, ma non realizzavo cosa. Vedevo facce note e sconosciute ma non individuavo quella di mia madre, che di lì a poco più di un mese avrebbe compiuto 26 anni (nemmeno la metà dei miei anni di adesso), né quella di mio fratello Salvo, che di anni ne aveva 3 e non può serbare alcuna memoria di quella mattina.

Poi però la mamma apparve, sorretta da qualcuno. L'unica a non piangere, perché annichilita dal dolore. Poi i ricordi delle ore successive diventano ancora più frammentari. Io che vengo affidato per il resto del giorno alla famiglia del quarto piano, prima che i miei parenti corrano verso Palermo. Il telegiornale che apre con la notizia di un disastro aereo nel silenzio grave della casa che mi ospita e mi tiene sottovuoto. E una normalità nuova che comincia a essere costruita dall'indomani.

La strage 

Cinquant'anni dopo il ricordo di quel 5 maggio 1972 è tenuto vivo soltanto da chi ne ha fatto una missione. Come i parenti delle vittime, che a ogni anniversario si arrampicano lassù e stazionano davanti alla grande croce eretta sulla cima. A loro si associano quei pochi che per pura passione civile hanno deciso di tenere viva l'attenzione intorno a una tragedia che rapidamente è stata dimenticata perché di gran fretta è stata liquidata come conseguenza di un errore umano.

Così stabilì un'inchiesta governativa commissionata dall'allora ministro dei Trasporti e dell'Aviazione Civile, Oscar Luigi Scalfaro, e condotta con straordinaria velocità dal generale Francesco Lino: aperta il 12 giugno 1972, chiusa il 27 dello stesso mese con giudizi infamanti nei confronti del comandante Roberto Bartoli e del pilota Bruno Dini.

Le evidenze emerse negli anni successivi avrebbero dimostrato quanto quelle conclusioni e quei giudizi fossero fuori luogo, dunque doppiamente infamanti. Ma quando altre rappresentazioni su ciò che accadde la sera di quel 5 maggio 1972 cominciavano a farsi largo, picconando l'esilissimo impianto della verità ufficiale, il disastro di Montagna Longa aveva già fatto in tempo a essere dimenticato. Stratificato sotto il clamore e i misteri di altri eventi luttuosi che hanno attraversato il nostro paese, durante quel decennio lungo del nostro secolo breve che parte con la fine degli Anni Sessanta e si chiude con l'avvio degli Ottanta.

Un lasso di tempo in cui altri due disastri hanno colpito aeromobili diretti verso lo scalo di Punta Raisi: il “volo di Natale”, l'Alitalia 4128 che la sera del 23 dicembre 1978 finì in mare a Terrasini, pochi chilometri oltre la pista d'atterraggio (soltanto 21 sopravvissuti sulle 129 persone a bordo); e poi il DC9 Itavia che la sera del 27 giugno 1980 fece perdere le tracce di sé nel cielo fra Ponza e Ustica.

Quest'ultima è stata la strage che più è rimasta impressa nella memoria collettiva del paese. Talmente impressa da produrre un involontario effetto: assorbire le altre due, inglobarle in un solo schema per cui “Ustica” diventa un tutt'uno con “Montagna Longa” e “il volo di Natale”. E quanto più passa il tempo, e si succedono le generazioni che quei fatti non li hanno vissuti sulla propria pelle, tanto più l'effetto-inglobamento lavora silenziosamente, consolidando la sordina intorno a tutti i misteri insoluti intorno al 5 maggio.

L’ipotesi attentato

«Maria si sentiva come il vecchio zio che era stato per due anni nei campi di concentramento tedeschi, uno dei seicentomila soldati e ufficiali italiani che, dopo l’armistizio con gli Alleati dell’8 settembre, non avevano voluto aderire alla Repubblica Sociale e continuare a combattere accanto ai nazisti. Non erano considerati prigionieri di guerra, come gli altri militari detenuti nei lager nazisti, come gli inglesi, gli americani e i francesi. Erano nell’ibrida e inedita posizione posizione di internati militari italiani e quindi non avevano la tutela della Convenzione di Ginevra che copriva tutti gli altri».

Quello appena riportato, con perfetta descrizione dello stato d’animo da non riconoscimento ufficiale della gravità dei fatti provato dai familiari del disastro, è un frammento di “Settanta. Il poliziotto e la strage negata”, libro di genere  narrativa d’inchiesta scritto da Fabrizio Berruti e pubblicato lo scorso febbraio da Round Robin.

Giornalista e documentarista, con vaste esperienze di lavoro a fianco di maestri come Piero Angela, Giovanni Minoli e Sergio Zavoli, Berruti in questo frammento riporta i pensieri di Maria Eleonora Fais, sorella di una delle vittime: Angela Fais, giornalista prima del quotidiano palermitano del pomeriggio L’Ora e poi di Paese Sera.

Maria Eleonora Fais è stata fra le persone più tenaci nella ricerca della verità e si deve soprattutto alla sua opera se sono stati scritti libri come quello di Berruti. Che alla vicenda dà l’etichetta di ‘strage’: “Più che dimenticata, quella di Montagna Longa è una strage negata. Mi ci sono imbattuto per caso e quando ho trovato tracce di quell’incidente mi si è riaperto un cassetto della memoria. Mi sono ricordato di avere pure io un parente morto in quel disastro. Si chiamava Vincenzo Tiscini, era il padre di un mio cugino di secondo grado. E partendo da quel ricordo recuperato ho cominciato a ricostruire la vicenda e il suo contesto”.

Già, il contesto. Quei Settanta che Berruti menziona nel titolo, gli anni più sanguinosi nella storia dell’Italia repubblicana. Ma anche quel 5 maggio del 1972, un venerdì di chiusura della campagna elettorale per le prime elezioni politiche anticipate nella storia del paese. In quel momento era un’eccezione, ma poi sarebbe diventata la norma fino alle politiche 1992, giunte a scadenza quasi naturale sotto l’onda di Tangentopoli.

L’aereo che viaggiava verso Punta Raisi, aeroporto piazzato in posizione infelicissima per soddisfare inconfessabili interessi fondiari, era l’ultimo della sera e sorvolava i cieli di un paese tesissimo, in cui l’avanzata della destra post-fascista era nei fatti e sarebbe stata confermata dall’esito delle urne. Che consegnò al Msi-Dn guidato da Giorgio Almirante il ruolo di quarta forza parlamentare, con un capitale elettorale del 8,67 per cento.

L’ultimo pezzo di cielo e di paese che quella sera l’aereo sorvolò era quello di Carini. Dove molti dei presenti in piazza, radunati per i due comizi conclusivi della campagna elettorale tenuti da Dc e Msi, sono sicuri di aver visto l’aereo in fiamme quando ancora era in volo, prima di andare a schiantarsi contro Montagna Longa. Testimonianze che negli anni successivi avrebbero avvalorato l’ipotesi dell’attentato.

La perizia Marretta

C’era un’atmosfera strana nella Sicilia di quei mesi. La raccontava con acume Giovanni Spampinato, giornalista ragusano col talento per l’inchiesta ucciso con sei colpi di pistola il 27 ottobre dello stesso anno. Indagava anche sulle misteriose presenze in Sicilia di soggetti del neo-fascismo golpista, e sui campi di addestramento para-militare messi su nel territorio dell’isola.

Oltre a aver sostenuto dalla prima ora la tesi dell’attentato, Spampinato delineava le prime articolazioni di uno schema che vedeva un patto scellerato fra mafia e neo-fascismo golpista. Uno schema che con grande nitidezza è stato ricostruito in un rapporto stilato negli anni successivi da Giuseppe Peri, vice questore a Alcamo (provincia di Trapani) che mise in fila una serie di eventi criminali avvenuti in Sicilia e in altre parti del paese.

A partire dai sequestri di persona, fatti a scopo di finanziamento di un progetto eversivo e avvenuti anche in Sicilia, ciò che rompeva un codice criminale consolidato della mafia ma che senza il consenso della mafia non sarebbe potuto avvenire.

Il rapporto inviato da Peri a otto procure, riprodotto integralmente in appendice del libro di Fabrizio Berruti, venne bollato all’epoca come un documento delirante e costò al funzionario di polizia l’isolamento e una morte di crepacuore, avvenuta il primo giorno dell’anno 1982.

Quel documento è stato riesumato grazie alla tenacia di Maria Eleonora Fais, che nell’ultimo passaggio di recupero del rapporto si è avvalsa della risolutiva collaborazione di un magistrato della Procura di Marsala. Quel magistrato rispondeva al nome di Paolo Borsellino, cui negli anni successivi sarebbe stato co-intitolato l’aeroporto di Punta Raisi, unitamente al collega e fraterno amico Giovanni Falcone.

Il rapporto stilato di Peri anticipava il quadro di ipotesi che anni dopo porterà il professor Rosario Ardito Marretta, docente di Aerodinamica dei fluidi presso l’Università di Palermo, a confutare decisamente l’ipotesi del disastro avvenuto a causa dello schianto e a avvalorare quella della bomba esplosa a bordo.

Una bomba che forse avrebbe dovuto esplodere dopo l’atterraggio dell’aeromobile a Punta Raisi. E che invece sarebbe deflagrata durante il volo, e avrebbe reso ingovernabile l’aeromobile, a causa di un ritardo nel piano di viaggio.

C’è il contesto, c’è il solido parere scientifico, ci sono pure i filmati inediti girati nelle ore immediatamente successive al disastro, che permettono di constatare uno stato dei cadaveri (sui quali non venne condotto esame autoptico) non compatibile con le conseguenze di uno schianto. Manca la reale volontà di riaprire il caso e distaccarsi dalla verità ufficiale: incidente causato da errore umano. Una strage negata, appunto.

Venticinque anni dopo

Lassù in cima a Montagna Longa ci sono stato soltanto una volta. In occasione di un’altra ricorrenza simbolica: 5 maggio 1997, venticinquesimo anniversario dal disastro. Era anche l’ultimo anno della mia permanenza in Sicilia, prima del trasferimento a Firenze. Ricordo la lentezza della carovana che andava in su, la vertigine provocata dal vuoto di fianco all’automobile, e quel sentirsi minuscolo ai piedi della croce.

Sentii di aver disertato fin lì, come sento di continuare a farlo adesso, nonostante la distanza dalla Sicilia mi dia qualche giustificazione. Ognuno vive a modo proprio una tragedia, che è un evento condiviso ma anche personale. Conta non dimenticare. E non smettere di cercare la verità.

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