Avrebbe compiuto 32 anni il prossimo giugno. Filippo Viscido è stato ritrovato dai suoi familiari nel garage di casa, a Battipaglia, morto suicida, dopo un periodo di depressione che ha trovato nella pandemia un moltiplicatore infernale.

Filippo, come molti altri appartenenti alle più svariate attività umane, da quelle artistiche alle artigianali, solo per citarne un paio, è una vittima collaterale del Covid, uno di quelli che non verrà conteggiato tra i morti causati dal virus, ma che il virus ha aggredito per altra via e forma. Soprattutto quella economica. Quanti si sono ritrovati senza lavoro, con il terrore di non avere un futuro di fronte.

Quello che colpisce della vicenda di Filippo era la sua professione. Calciatore. Una carriera a cavallo tra professionismo, in C2 con l’Avellino, e il campionato nazionale dilettanti, la cosiddetta serie D. Dal Chieti alla Cavese, il Pomigliano, molte le squadre semiprofessionistiche in cui ha militato. Nella stagione 2019-2020 fu tra i protagonisti della cavalcata dell’Afragolese sino alla vittoria della Coppa Italia dilettanti.

La notizia ha generato grande commozione anche nella squadra del suo paese, la Battipagliese, compagine in cui aveva giocato diverse stagioni.

Senza più una squadra, ancora giovanissimo, Filippo si era reinventato elettricista durante i mesi della pandemia, e dalle notizie non sembra che lui e la sua famiglia, una moglie e due figli piccoli, avessero gravi problemi di sostentamento.

Al capolinea

Quello che ha lavorato in lui, molto probabilmente, è altro.

E non può essere di certo un caso se il suo gesto, il suicidio, sia un’onda lunga che attraversa il calcio a tutti i suoi livelli.

Filippo si è ritrovato senza squadra a quasi trentadue anni, forse, ha intuito che il suo sogno, la sua più grande passione, il calcio, era giunto al capolinea. E non è riuscito a pensarsi altrove, a pensarsi altro.

Dopo che per tutta la vita hai cadenzato i tuoi giorni in allenamenti e partite, ritiri, preparazioni, dopo aver speso tutto di sé all’inseguimento di un sogno che realizza uno ogni mille, diventare calciatore professionista, alla fine non tutti hanno la forza di rinascere dentro altre passioni.

È una parabola che sfiora il cielo, spesso riesce a toccarlo, per poi precipitare verso il fondo.

È la storia di migliaia di ragazzi che arrivano a un passo dal professionismo, spesso dentro le squadre primavera dei grandi club di Serie A, ma che al momento cruciale della loro carriera sportiva finiscono per essere scartati.

Dal sogno della Serie A si finisce nel professionismo minore, spesso nei dilettanti.

Immaginate un diciottenne che si è allenato sino a ieri con Ronaldo, o Ibrahimovic, che sente di aver raggiunto il suo traguardo e che si ritrova a giocare in un campo di provincia, lontano dalla ribalta della massima serie, soltanto perché all’ultimo è stato preferito un altro. In molti si ritirano.

È la storia di migliaia e migliaia di vite.

Senza ricchezze

Chi resiste nelle serie minori, nei dilettanti, malgrado il divieto formale vive con quello che a tutti gli effetti si può definire uno stipendio da calciatore. Camuffato come rimborso spese o cose del genere.

Niente stadi pieni, niente macchine da trecento cavalli.

Da poche centinaia di euro al mese a diverse migliaia, a seconda della categoria e delle capacità del singolo. Tutto questo, naturalmente, senza garanzie reali, a decine sono le piccole società calcistiche che ogni anno non riescono nemmeno a iscriversi al campionato d’appartenenza.

Una carriera tra i normali del calcio, a maledire questo o quell’allenatore che ci ha rovinato la carriera, perché, in ultimo, non può essere nostra la colpa se non siamo arrivati lì dove avremmo dovuto essere. In mezzo ai più forti. In Serie A.

Filippo lo chiamavano Pittbull, era un centrocampista di quelli che non tolgono mai la gamba, coraggioso, che spezza il gioco avversario e fa ripartire l’azione.

Ad avercene in ogni squadra.

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