Ha scelto di collaborare con la giustizia, di denunciare persino i familiari affiliati, ma lo hanno lasciato senza figlia. È stata affidata alla madre che però non ha tagliato il cordone con la ‘ndrangheta. «O mi fate fare il padre oppure mollo tutto», dice Emanuele Mancuso, rampollo dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta, la più potente della Calabria, con ramificazioni in tutto il mondo e interlocutrice alla pari con i cartelli della droga del sud America. Una vita nell’ombra del padre, Pantaleone, detto l’ingegnere, e nipote di Luigi, detto il Supremo.

Emanuele, però, ha deciso di collaborare con la giustizia da quando, quattro anni fa, ha saputo che sarebbe diventato padre. Dal carcere, proprio durante la gravidanza della compagna Vera Chimirri, ha deciso di iniziare il percorso di collaborazione con i magistrati.

È il primo pentito dei Mancuso, cosca in grado di operare in tutto il mondo e finita sotto processo nell’inchiesta della procura di Catanzaro ribattezzata “Rinascita Scott”. Eppure la sua collaborazione è a rischio, sottoposta a un cortocircuito amministrativo e giudiziario che chiama in causa assistenti sociali e tribunale di minori, e rischia di respingere il rampollo nelle braccia della famiglia di origine. Un’ipotesi che inquirenti e magistrati vogliono scongiurare, ma che racconta errori e sviste nella gestione dell’affido della figlia minore.

La compagna mai pentita

Emanuele Mancuso ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha sollecitato la pubblica opinione attraverso i giornali per rendere pubblica la sua storia. La compagna, Chimirri, è sotto processo per reati gravi, accusata di essere contigua al clan Mancuso. Non si è mai pentita eppure vive in località protetta, dorme con la figlia che è stata affidata ai servizi sociali.

Il tribunale dei minori di Roma ha stabilito una limitazione della genitorialità tenendo conto del conflitto tra padre e madre. Un conflitto insanabile perché il primo ha scelto di recidere i rapporti con la cosca, mentre l’altra resterebbe ancorata all’ambiente criminale. Contro il provvedimento del tribunale, Mancuso ha presentato un ricorso che sarà discusso a metà aprile.

Il paradosso è che mentre Chimirri convive con la bambina in una casa famiglia, il padre è costretto a vederla solo un’ora a settimana quando non sopraggiungono impegni di giustizia.

In diverse occasioni, quando ci sono udienze o altre incombenze, il collaboratore ha chiesto più volte di trovare una finestra di disponibilità alternativa, ma senza esito. Insomma non c’è solo il provvedimento limitativo della genitorialità disposto dal tribunale dei minori, ma anche la modalità con cui i servizi sociali calendarizzano gli incontri.

Il caso presenta però anche altre anomalie: la vicinanza geografica tra il luogo dove ha trascorso la latitanza il padre del pentito, il boss Pantaleone Mancuso, e il posto dove vive in località protetta l’ex compagna di Mancuso. Segnali che preoccupano il collaboratore di giustizia, insieme alla notizia che la donna si sarebbe resa protagonista di un furto nel luogo segreto dove si trova sotto protezione.

«Quando riesco a vedere mia figlia devo incontrarla in locali fatiscenti che non mi consentono di costruire un rapporto, una relazione con lei, tutto questo è inaccettabile», dice Mancuso. Per il collaboratore la figlia rappresenta la nuova vita lontano dalla ‘ndrangheta, non essendo più sodale e custode dei segreti del clan.

«Non avevo una dote (grado di affiliazione, ndr) di ‘ndrangheta, la mia specializzazione era informatica, giravo con le valigette, portavo comunicazioni, bonificavo i posti dalle microspie. I Mancuso sono come un’istituzione, siamo un modello di vita. Mi rapportavo con agenti infedeli, con politici locali, lì lo stato non è il comune, ma la cosca», racconta.

Il piano per farlo smettere

Foto LaPresse - Claudio Furlan 19/09/2017 Milano ( IT ) V raggio lato b Cella 124 , ricostruzione negli spazi universitari di una cella del carcere di San Vittore, messa a disposizione dalla Caritas Ambrosiana e promossa dalla associazione di studenti Diritti verso il futuro

I familiari hanno tentato in ogni modo di fargli cambiare idea, la collaborazione nelle cosche è sinonimo di “infamità”, è “disonorevole”. «Mi avevano dato i nomi di due avvocati, dovevo fingermi pazzo, prendere soldi e andare all’estero per aprirmi un bar, mia figlia viene utilizzata per raggiungere questo scopo, ma non ci sono riusciti e non ci riusciranno», dice.

Le pressioni sul pentito hanno portato anche alcune condannate in primo grado. Come nel caso della stessa compagna, Vera Chimirri, che, oltre ad essere coinvolta in procedimenti penali dove emergono i rapporti con i Mancuso, è stata condannata a quattro anni per aver tentato di far desistere l’ex compagno dalla collaborazione.

L’indagine racconta il potere della famiglia fuori e dentro il carcere. Il fratello del pentito era venuto a conoscenza dell’intenzione di Emanuele Mancuso di pentirsi. Mentre si trovava in carcere Mancuso viene “avvisato” da un altro detenuto, la conversazione è annotata in una relazione dei poliziotti carcerari: «Chi bue tamburru, cane...vi ma ti ricogli se no fai la fine i latri (che vuoi pecorone, cane...vedi di tornare indietro altrimenti fai la fine degli altri)».

All’interno del carcere il giovane Mancuso percepiva l’ostilità. Lo stesso detenuto che gli aveva dato del «cane», gli ha detto: «Cuè che ti dice mu parri? U cumpari Nicola (chi ti dice di parlare? Il compare Nicola?)». Il riferimento è al magistrato Nicola Gratteri, nemico numero uno delle cosche di Vibo Valentia.

Il tentativo di dissuadere Mancuso dalla collaborazione si è scontrato con la determinazione dello stesso ragazzo, nonostante gli avessero fatto capire che non avrebbe più visto la figlia. Mancuso ha resistito, ora vuole solo fare il papà e aiutare la giustizia a mettere alla sbarra i padroni della Calabria. Dopo un colloquio con la procura è stato disposto un avvicinamento al luogo dove vive la figlia con l’ex compagna, in attesa delle decisioni del tribunale. 

Il medoto Roberto Di Bella

La Presse

Questi fatti avvengono in una terra che, dal 2012, si era distinta per un protocollo rivoluzionario adottato dal tribunale dei minori di Reggio Calabria, all’epoca guidato dal presidente Roberto Di Bella. Il progetto si chiamava “Liberi di scegliere”.

I minorenni che passavano dal tribunale, condannati per estorsione, minacce, tentati omicidi, una volta scontata la condanna non cambiavano strada ma continuavano la scalata dell’organizzazione criminale.

La ‘ndrangheta è una mafia fondata sui legami familiari, fin da piccoli i bambini vengono indottrinati con le regole e i codici della famiglia criminale. Gli esempi sono innumerevoli: un ragazzo della provincia di Reggio Calabria ha raccontato ai magistrati che era stato costretto ad assistere alla riunione sui traffici di droga e che era stato usato come copertura per le consegne. Un altro aveva ricevuto l’ordine dal padre di uccidere la madre, anche lei diventata collaboratrice di giustizia. 

Per spezzare la trasmissione dei valori criminali, il magistrato Di Bella aveva intrapreso un percorso che portava all’allontanamento dei minorenni dalle famiglie mafiose. Così facendo molte madri avevano iniziato a fidarsi del tribunale. Anno dopo anno, in numero sempre maggiore, le donne dei clan hanno bussato alla porta di Di Bella per chiedere di essere portate via dall’ambiente familiare.

Una rivoluzione per un sistema impenetrabile come quello ‘ndranghetista. Quel protocollo ora viene applicato anche in Sicilia e Campania, ma manca una legge che le associazioni chiedono da moltissimo tempo.

La deputata del M5s, Danila Nesci, ha presentato nei giorni scorsi una proposta di legge alla ministra Marta Cartabia per trasformare il protocollo nato a Reggio in una norma nazionale. Non sarebbe un cambiamento di poco conto: perché funzioni il meccanismo servono risorse e non può essere lasciato tutto in mano al volontariato e alla buona volontà di chi decide di accogliere chi scappa dalla mafia.

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