Nel dibattito tra didattica a distanza e in presenza, tra le mura delle carceri si è sperimentata una terza via: lo stop totale alle lezioni. Dall’inizio della pandemia, quasi un anno, oltre 500 studenti detenuti nell’istituto penitenziario di Rebibbia non hanno intrapreso alcun percorso di didattica online, nonostante le scuole cui sono iscritti abbiano acquistato le attrezzature necessarie a settembre, con fondi del ministero.

Il motivo è l’assenza di una connessione sicura, oltre alle ristrettezze degli spazi, già insufficienti per “ospitare” i detenuti, figuriamoci per riunirli in classi abbastanza spaziose. Se, come recita la Costituzione, la pena «deve tendere alla rieducazione del condannato» allora nel carcere di Rebibbia siamo di fronte a una sospensione di un diritto fondamentale dei detenuti.

«Abbiamo speso un sacco di soldi del ministero, acquistando tutto il necessario: smart tv, microfoni, cuffie, ma non ci è consentito introdurre gli strumenti in carcere», dice Patrizia Marini, dirigente scolastico dell’Istituto tecnico agrario Emilio Sereni, una scuola della periferia est di Roma, che conta diciotto iscritti tra carcere maschile e femminile di Rebibbia.

L’impegno disatteso

«Negli istituti penitenziari con cui lavoriamo è stato impossibile attivare la Dad», dice Mariella De Michele, insegnante del Sereni e responsabile delle classi di detenuti. «L’amministrazione carceraria si era presa l’impegno di risolvere i problemi di rete e di formazione del personale interno. A oggi non vediamo gli studenti da novembre e non abbiamo notizie sui tempi di allestimento delle smart classe», conclude.

Agli inizi della pandemia, in tutta Italia è stato impossibile attivare effettivi percorsi di didattica online con gli studenti degli istituti penitenziari, viste le stringenti normative carcerarie in fatto di reti Internet, la carenza di personale di vigilanza e la scarsa disponibilità di device.

«A settembre, nonostante i fondi erogati alle scuole, pochi penitenziari si sono organizzati con la Dad, molti sono ripartiti in presenza senza organizzarsi per una seconda ondata», dice Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, commentando i dati che l’associazione in difesa dei diritti dei detenuti sta raccogliendo per il suo report annuale.

«Nella metà dei casi che abbiamo rilevato, adesso si fa didattica in presenza. La Dad l’hanno organizzata in pochissimi, i problemi sono strutturali: nelle carceri non c’è connessione, spesso si fatica a far funzionare le linee telefoniche», commenta Scandurra. L’interazione con l’esterno avviene spesso con smartphone che hanno una banda limitata e che servono ai colloqui famigliari dei detenuti, in sostituzione di quelli dal vivo. Utilizzarli per la Dad è fuori discussione.

Vista la presenza di un focolaio all’interno del carcere, 110 i positivi al 29 gennaio, e senza particolari evoluzioni tecnologiche, a Rebibbia il ritorno in classe sembra essere un miraggio. Le lezioni in presenza sono ferme dal 19 novembre dopo una disposizione della Asl che, in occasione di una prima diffusione del contagio, ne aveva ordinato lo stop.

«Una decisione che ai tempi ho contestato perché non rispetta i requisiti di circostanza, sospende la didattica senza un termine», spiega Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio. «Quando c’era stato un focolaio nel reparto femminile, la direttrice aveva fermato le lezioni con provvedimenti settimanali».

Un solo istituto

I 310 iscritti (su 1.400 detenuti) del complesso principale di Rebibbia, le 105 studentesse del femminile e i 212 del penale si sono arrangiati con una didattica a distanza asincrona, affidata all’organizzazione delle singole scuole, che inviano i materiali, e alla disponibilità degli operatori carcerari, che li stampano e li distribuiscono. Un solo istituto del grande complesso carcerario romano prosegue le lezioni in aula.

«Si tratta della III Casa Circondariale di Rebibbia che, con soli 11 iscritti su 70 detenuti, riesce a portare avanti il programma in una sola stanza e con una connessione molto precaria perché sono pochi», commenta Anastasia. Viste le difficoltà e il sostanziale blocco della didattica negli altri plessi, il dipartimento di prevenzione della Asl ha annunciato che il 1° febbraio effettuerà una ricognizione nell’istituto per valutare una ripartenza della didattica in presenza per tutti.

Una prospettiva che preoccupa moltissimo insegnanti e operatori carcerari: «Sarebbe una follia», commenta De Michele, «gli spazi non ci sono e quando siamo andati noi in carcere, come a settembre e ottobre, tutti i dispositivi di protezione dovevamo portarceli da scuola mentre ai detenuti non venivano forniti. Non c’è aerazione sufficiente, non si capisce perché non siano in grado di trovare una soluzione per la Dad, finché i contagi sono così alti».

Ma i soldi ci sono

Eppure i soldi sono stati investiti – solo nel Lazio 350mila euro, 5mila quelli dell’istituto Sereni – attraverso i fondi europei Pon messi a disposizione dal ministero dell’Istruzione per allestire smart class mai utilizzate a causa delle carenze strutturali delle carceri.

Grazie a un emendamento alla legge di stabilità regionale, a firma del consigliere di +Europa Radicali, Alessandro Capriccioli, alla fine del 2020 sono stati stanziati 600mila euro per la digitalizzazione e il potenziamento delle attrezzature telematiche delle prigioni. Un investimento necessario che rischia però di far vedere i suoi primi frutti ad anno scolastico abbondantemente terminato.

L’elevato numero di detenuti iscritti a percorsi scolastici, oltre 20.000 nel 2018, il 34,64 per cento della popolazione carceraria secondo gli ultimi dati di Antigone, mostra l’importanza crescente della formazione in un percorso di pena che non dovrebbe essere soltanto punitivo. Il livello di istruzione medio di una persona che finisce dentro è piuttosto basso.

Sempre al 2018, il 38,6 per cento dei detenuti aveva la sola licenza media, il 26,5 quella elementare, il 5,5 era senza titolo di studio. Solo il 4,2 per cento aveva un diploma di scuola superiore. L’istruzione resta dunque la via principe per immaginare un futuro al di fuori delle sbarre e uno strumento fondamentale per evitare la recidiva.

«Fare dieci mesi di carcere ora o farli tre anni fa non è la stessa cosa», dice Alessio Scandurra di Antigone. «La galera oggi è più severa e non garantisce i diritti del dettato costituzionale».

E mentre gli studenti, giovani e liberi, chiedono maggiori garanzie per il rientro in aula, una donna, uscita da pochi giorni da Rebibbia, bussa alle porte del Sereni: «Voleva sapere se poteva iscriversi alle serali: è stata la prima cosa che ha fatto dopo aver scontato la pena ed essere uscita dal carcere», racconta commossa la professoressa De Michele, che fino all’anno scorso era stata la sua insegnante dietro le sbarre.

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