Nella Babele di don Max Caliandro. «Nel villaggio accolgo gli esclusi del mondo»

«Questo è il mio orgoglio. Quando sono arrivato qui, in piena pandemia, non faceva nemmeno i fiori». Don Massimiliano Caliandro pulisce le fronde di un albero carico di arance sul fianco della sua parrocchia. «Chi vive qui sa che i frutti non vanno staccati, si possono cogliere solo quando cadono a terra». Si abbassa don Max per passare sotto i rami e superare un varco che porta a un villaggio di prefabbricati in legno. Sullo sfondo svettano le torri di Tor Bella Monaca e una fabbrica di armi dismessa dagli anni Cinquanta. Il quartiere Villa Verde dove si trova la parrocchia Madre dell’ospitalità non ha una piazza. «Il villaggio della ospitalità invece sì», don Max accenna un sorriso. È un progetto di permanenza di un paio d’anni per poi rimettersi in autonomia in un contesto sociale e abitativo. Sfiducia nel futuro e meno opportunità, il grido dei giovani nelle periferie: due ragazze su tre temono molestie «A volte però qualcuno non ce la fa a uscire dalla stagnazione. Sono quelle situazioni in cui la precarietà diventa ordinaria». Secondo il parroco, la situazione psicologica è una conseguenza della marginalità. «Che loro esistano o non esistano non interessa a nessuno. Questa è la sfida della parrocchia. Essere comunità. Se una comunità non si lascia coinvolgere, è ripiegata su sé stessa, è depressa». Nel villaggio ci sono circa 40 persone. «Ognuno è corresponsabile della vita comune con compiti di cura da svolgere negli spazi comuni. Questa attività ti costringe a relazionarti con gli altri». Paola è la più anziana del villaggio. «Eravamo pieni di debiti per un’attività e abbiamo venduto casa. Il mio compagno ha trovato lavoro come corriere, ma dopo tre infarti non ha potuto più continuare. Io ho fatto la badante ma ho smesso per problemi alla schiena». L’assistente sociale aveva consigliato al compagno di andare a dormire all’ostello per i senza dimora a Termini. «E io dove sarei andata? Quando siamo arrivati qui al villaggio è stato brutto. Un misto di colpa e vergogna». I servizi sociali spesso chiamano don Max per collocare persone: «Servizi sociali pagati con le tasse dei cittadini chiedono aiuto a una parrocchia spartana come la nostra». La formula delle scuole di Milano contro la “fuga bianca” dalle periferie Comunità A differenza di un condominio, nel villaggio non ci si può ignorare. «Nelle assemblee si discute di dinamiche umane: avendo culture diverse, gli adulti fanno fatica a capirsi». Nel piazzale si rincorrono Vladimir e Amadou. I figli invece conoscono il linguaggio comune del gioco. Una onlus distribuisce nel villaggio frutta e verdura in sovrapproduzione, mentre alcuni supermercati regalano merce in scadenza non più vendibile. Tra gli ospiti c’è una ragazza iraniana che studia medicina e lavora in un ristorante per mantenere la madre e la sorella a Teheran. «Non ha una borsa di studio perché la burocrazia è un inferno». Mario è un malato terminale. È arrivato da poco da Rebibbia, è un detenuto a cui il giudice ha concesso di non morire in carcere. È a letto, le gambe gonfie, fatica a mettersi in piedi. Don Max lo segue nelle cure. Ha appena fatto la spesa dalla distribuzione comune. «Se la carne scade fra due giorni, non vale la pena che la ghiaccio, vero?». In quel ghiacciare si scioglie qualcosa negli occhi contornati di giallo, il fiato corto. Tossisce facendo risalire un liquido disperato che diventa risata di gratitudine. Natalia ha due bambini, viene dall’Ucraina dove insegnava. È scappata dalla guerra insieme al marito, cittadino moldavo, che da minorenne era stato a Roma. «Abbiamo dormito in macchina. Mio marito è stato assunto da un signore che frequenta la parrocchia. Io sto imparando l’italiano grazie a mio figlio». Oggi lavora come assistente di un disabile. «Da tre giorni non sento la mia famiglia in Ucraina. Forse è saltata la luce». O forse no. Julia, polacca, ha una figlia autistica non verbale di 16 anni. Il marito è stato allontanato per violenza. La figlia può andare a scuola solo due volte alla settimana perché mancano risorse specifiche per i suoi bisogni. «Stavamo bene economicamente, siamo finiti sul lastrico per colpa di mio marito». Sono passati da un ultimo piano di 100 mq a 20 mq: «Come posso far entrare tutto il mio mondo qui?». Julia è un’artista, realizza quadri e sculture che condensano angoscia e senso profondo dell’umano. «Questa non è una parrocchia migliore delle altre», don Max non ha dubbi. «Gli eroi sono stati inventati per non farci lavorare come comunità». Tra gli abitanti del villaggio c’è anche una famiglia che ha raggiunto l’autonomia economica. «Nessuno gli affitta casa perché sono neri», sostiene il parroco. «Il mio sogno è creare una rete virtuosa di proprietari di case per affitti a prezzi contenuti». Secondo don Max, bisogna essere spinti dal bisogno disperato di sopravvivere per fare comunità. «Nella società c’è un individualismo sfrenato. Oggi la comunità è un atto profetico controcorrente». Tra i volontari del villaggio operano avvocati, un medico in pensione, insegnanti, psicologi, gente comune. «Per essere una comunità bisogna lasciarsi ferire. Toccare è l’attimo di un’emozione che poi passa. La ferita invece mi ha messo in contatto con quella persona. Resta la cicatrice. Mi è costata fatica. Questa azione non mi rende migliore, mi rende umano. L’unico momento in cui sei sopra qualcuno è quando ti chini a risollevare chi sta per terra». La maturazione come essere umano avviene nella caduta. Come un’arancia quando si stacca dal ramo. Da Tor Bella Monaca alle periferie d’Italia, la battaglia per l’istruzione degli adulti