Sabato mattina, outlet di Serravalle Scrivia, pochi chilometri da Alessandria: le alte mura color senape e vinaccia sembrano cingere una città medioevale sotto assedio, barricata contro un’orda in arrivo da tutto il mondo, pronta al tradizionale e festoso assalto di ogni fine settimana.

Fuori dalla mura, però, non c’è nessuno; deserto il parcheggio da migliaia di posti auto, deserta la strada statale che taglia in due il maxi shopping center, deserti bar, negozi, ristoranti: sembra di essere tornati indietro di trenta anni quando, su queste colline famose per i grandi vini del sud Piemonte, il sabato mattina di fine ottobre si potevano sentire solo trattori di ritorno dalle vigne e cacciatori.

Tutti a casa

Nel lessico bellico che ormai dilaga in Italia, dopo “coprifuoco”, “trincea”, “nemico invisibile” il paradiso dello shopping che farebbe strabuzzare gli occhi a Émile Zola è diventato un “fronte” e come tale è finito al centro del mirino di un'ordinanza regionale che impone la chiusura di outlet e maxi centri commerciali in Piemonte, il sabato e la domenica. Epidemia fuori controllo da giorni, caos organizzativo su molteplici piani, il tutto sommato a un graduale avvicinamento a decisioni sempre più drastiche, hanno portato a una scelta pesante dal punto di vista economico.

Il general manager del Serravalle McArthurGlen, Matteo Migani, si chiama fuori dal coro di lamenti imprenditoriali: è venerdì pomeriggio, il cielo sopra la sua fabbrica dello shopping è gonfio di pioggia che fatica a cadere, ma ancora alcuni clienti resistono e si aggirano ricolmi di pacchi tra vie e piazze di una cittadina del lusso a, quasi, buon mercato.

Migani non critica nessuno, capisce la situazione, condivide l’impostazione, mette al centro la salute, la sicurezza, e rilancia su un futuro denso di investimenti, quaranta milioni solo quest’anno e tutti in fase di realizzazione, ma poi una piccola freccia la scocca: «Qual è la differenza tra le vie aperte di un outlet di queste dimensioni e le vie centrali delle città, come via Roma a Torino?»

Il suo ragionamento, «privo di polemica ci tengo a dirlo», è un mantra che si incontra ogni volta che si parla con un imprenditore che alle sei del pomeriggio ha battuto venti scontrini, o a un commesso che pensa al suo futuro, alle sue tasse universitarie, alla vita.

Resistenza e frustrazione

La discussione spazia, e le testimonianze di chi vive dentro la città assediata si allargano su un piano più complesso, dai margini non netti. «Il caos genera il caos: non sono le regole – sostiene un imprenditore del settore calzature – a creare situazioni che ingenerano fenomeni di resistenza e frustrazione. Chiudere a macchia di leopardo ha un effetto perverso sui consumi, perché si tratta di un popolo nomade quello che va negli outlet. Ma non lo sanno? Se si deve chiudere si chiude tutti, non è possibile accettare un mercato che separa la vita e la morte economica di appena cento chilometri». Il riferimento implicito è all’outlet di Fidenza, provincia di Piacenza, aperto regolarmente.

E aggiunge: «Noi qui non chiediamo di tenere aperto o chiudere: decida il governo. Noi chiediamo uniformità decisionale alla politica, regole che siano per tutti. I discorsi dei miei clienti sono tutti così: non tollerano, anzi non tolleriamo più, il caos, gli stop and go, le zone gialle, arancioni, rosè, tu sì tu no e tutto il resto».

I nomadi dello shopping

Ore diciassette di venerdì pomeriggio, ultime ore prima della serrata: i negozi sono ancora aperti in fiduciosa attesa, sciamano clienti molto sereni e poco frettolosi che poi scompaiono definitivamente quando cala la notte. Gli italiani probabilmente hanno raggiunto un punto di saturazione tale che, in stragrande maggioranza, rifiutano ogni commento e anzi, vedono nei giornalisti una causa della situazione in essere. I pochissimi che esprimono qualche opinione e confermano la condizione nomade di questo consumo.

«Andremo dove è aperto, finché sarà possibile, nel fine settimana», sostiene una giovane coppia che aggiunge un particolare non secondario: «D’altronde i regali di Natale dovremo comprarli da qualche parte. Se chiudono tutto li acquisteremo su internet: ma preferiamo uscire».

Il Natale incombe come uno spettro per tutti, clienti e negozianti si lambiccano in ipotesi che si aggrappano al “facciamo come se”. La prospettiva, ancora taciuta nel vociare dilagante, potrebbe essere questa secondo il popolo dello shopping: chiudere ora tutto per piegare la curva epidemica, aprire a dicembre e salvare la festa finale, magari bardati come astronauti ma dentro il paradiso del consumo ancora una volta. «Il Natale, sarebbe bello farlo normale, sarebbe più facile fare tanti sacrifici che ci vengono chiesti. Così, invece, sembrano senza una prospettiva»: questa l’analisi di una ragazza che corre chissà dove.

«Ma la normalità è questa», commenta, un po’ amaramente e con un sorriso forzato, la signora Flavia in arrivo da Genova col marito: «Apertura e chiusura totale, apertura e chiusura. Durante le aperture si finge di vivere normalmente, durante le chiusure si finge di vivere e basta. Una vita per finta».

Più lavoratori che a Mirafiori

Sull’outlet, parola ancora semi intraducibile nonostante venti anni di storia, di Serravalle Scrivia, è stato scritto tutto sotto ogni punto di vista; la sua marcia economica e sociale è stata inarrestabile, scandita da record in successione: il più grande d’Europa, sei milioni e mezzo di visitatori annui, a un passo dal Colosseo che svetta con sette e mezzo e ben prima degli Uffizi. Il più bello, il più prestigioso, il più tutto di tutto.

Cinquantamila metri quadri di superficie, per lunghi anni ha avuto più lavoratori attivi delle mitiche carrozzerie di Mirafiori: circa duemila e cinquecento, calati in tempi recenti causa Covid-19. Ancora: duecentocinquanta negozi, undici ristoranti, per anni masse di consumatori hanno parcheggiato a chilometri di distanza pur di riuscire a entrare.

Sabato mattina l’incedere senza freni di una fabbrica post industriale si è fermato, questa volta perfino in maniera più dura di marzo, quando l’intero paese era sbarrato. Qualche auto si è presentata lo stesso, per vedere l’effetto che fa una città fortificata che nel fine settimana tiene fuori il mondo che vorrebbe depredarla a suon di carte di credito e sconti.

Non sono state riconosciute sufficienti le regole che vigono in questo tempio: commessi e commesse sono gentilmente ferrei nel chiedere agli sbadati l’igienizzazione delle mani all’entrata dei negozi, ferrei sul conteggio degli accessi, ferrei nella sanificazione ossessiva delle superfici. Ogni quarto d’ora la rassicurante musica che si diffonde tra le vie e nelle piazze, viene interrotta da avvisi cortesi e perentori che ricordano in due lingue cosa si deve fare per essere ben accetti in paradiso. Sulle numerose panchine ci si può sedere, da soli, e in un pomeriggio appena tre volti con la mascherina abbassata hanno attraversato le vie e le piazze dell’outlet: il tutto con un servizio di “vigilanza” che ti vede. Un mondo vagamente orwelliano.

I russi, i cinesi, i tedeschi

«Venivano i russi e compravano decine di paia di scarpe, quattro e cinque montoni, e così cinesi e tedeschi. Io ho lavorato quaranta anni e non mi devo più preoccupare, ma questi giovani che fanno i commessi come faranno?», ricorda con nostalgia un imprenditore. Cinesi e russi, però, resistono e in proporzione sono nettamente più degli italiani.

I cinesi qui presenti, in arrivo da Milano, chiacchierano anche volentieri di grandi marchi e grandi sconti, ma alzano gli aculei di un riccio quando si entra dentro la scabroso confronto tra la pandemia in Cina e quella in Italia. «No, no please. Italiani bravi come i cinesi, la malattia è molto brutta».

Il futuro per tutti è un grosso punto interrogativo lungo il fronte del consumo assediato, ma la difesa prepara le sue armi: una nuova campagna di pre saldi, sconti del 30 per cento. Per continuare a resistere.

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