- Con la seconda ondata la situazione degli anziani nelle strutture residenziali non sembra molto cambiata rispetto alla scorsa primavera.
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L’emergenza Covid ha messo in luce tutte le criticità di sistema delle oltre 700 Rsa lombarde, di cui soltanto il 9 per cento di proprietà pubblica, che ospitano 60mila anziani.
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Le Rsa sono pressoché l’unica risposta offerta alla fase più avanzata della vita. Ma tra il 10 e il 20 per cento degli anziani ospiti sono “ricoveri impropri”, vale a dire persone con problemi moderati di autonomia. Una scelta obbligata per le famiglie in assenza di un sistema pubblico di long term care.
Carenza di infermieri, ripresa dei contagi, nuova impennata dei decessi, riduzione dei servizi agli ospiti, assenza dei tamponi, anziani isolati dai parenti, ritorno dei Nas nelle strutture, malati Covid inviati nelle Rsa: con la seconda ondata la situazione degli anziani nelle strutture residenziali non sembra molto cambiata rispetto alla scorsa primavera.
L’emergenza Covid ha messo in luce tutte le criticità di sistema delle oltre 700 Rsa lombarde, di cui soltanto il 9 per cento di proprietà pubblica, che ospitano 60mila anziani.
Con il progetto di legge 144, di recente discusso in commissione Sanità, la regione Lombardia ha stabilito una compensazione delle perdite lamentate dai gestori privati per l’innalzamento dei costi sostenuti durante la pandemia. Una decisione che ha suscitato discussioni e polemiche, tenendo presente che gli stanziamenti concessi non sono soggetti né a vincoli d’impiego (obblighi di assunzione del personale e di formazione degli operatori, investimenti in servizi e in sicurezza) né a limiti rispetto all’aumento delle rette a carico de familiari.
Tanto più che ai profitti delle Rsa private in Italia non è previsto alcun tetto, come avviene in altri paesi europei, e che per le Rsa non esistono parametri nazionali di qualità dell’assistenza chiari, omogenei e controllabili per licenze e accreditamenti.
Ma la tragedia dei decessi e il lungo isolamento degli anziani residenti, nelle strutture, durato anche nel periodo in cui il resto della popolazione era uscito dal lockdown, hanno posto in primo piano la necessità di un modello di assistenza rispettoso della libertà di scelta dei singoli, in una logica di flessibilità e personalizzazione che garantisca il diritto di vivere con dignità anche gli ultimi, e quindi più preziosi, anni di vita.
Il caso significativo della prolungata chiusura ai colloqui con i parenti, che con l’isolamento ha provocato il peggioramento delle condizioni di salute degli ospiti – molti dei quali hanno smesso di nutrirsi, camminare, parlare, riconoscere i volti – conferma che i contatti sociali sono indispensabili per la loro vita e che la solitudine crea seri danni.
Lo confermano le indicazioni del’Istituto superiore di sanità che riconoscono l’importanza per il benessere degli ospiti delle Rsa di ricevere in sicurezza le visite dei parenti, e lo confermano le centinaia di testimonianze raccolte in un libro bianco che abbiamo presentato al presidente della Commissione istituita dal ministero della Salute, monsignor Vincenzo Paglia, per sensibilizzare su questo tema gli organi decisori nazionali.
Unica risposta
Attualmente le Rsa sono pressoché l’unica risposta offerta alla fase più avanzata della vita. Il tempo di permanenza nelle strutture è sempre più breve e la degenza media è inferiore all’anno, in media tra i 6 e i 9 mesi.
Ma tra il 10 e il 20 per cento degli anziani ospiti sono “ricoveri impropri”, vale a dire persone con problemi moderati di autonomia e con necessità di un’assistenza meno intensa di quella offerta da queste strutture.
Una scelta obbligata, dunque, per le famiglie laddove manca un sistema pubblico di long term care, vuoi di tipo domiciliare, vuoi di tipo residenziale operante attraverso reti territoriali. Sono infatti ancora assenti in Italia nuovi modelli assistenziali di livello intermedio, volti a garantire, fino a quando possibile, l’autonomia delle persone anziane al proprio domicilio attraverso servizi adeguati ai loro bisogni (servizi infermieristici domiciliari, attività fisiche organizzate, fornitura di pasti, servizi di pulizia e lavanderia).
Una soluzione che favorirebbe una migliore qualità della vita e una maggior sostenibilità economica per le famiglie e per la spesa sanitaria pubblica. In Italia, invece, gli anziani over 65 assistiti tra le mura domestiche tramite la “famosa” Assistenza domiciliare integrata (Adi) sono pochissimi – 3 su 100 – a fronte di 3 milioni di persone affette da multi-cronicità e disabilità severe che il Servizio sanitario non è in grado di curare negli ospedali, oggi più che mai in sofferenza e con i pronto soccorso presi d’assalto, per lo più proprio da anziani.
Un 3 per cento che riceve, in media, 20 ore di assistenza domiciliare ogni anno, a fronte di paesi europei che garantiscono le stesse ore in poco più di un mese.
Tanto più in una regione come la Lombardia, caratterizzata da una grande diversità geografica e da un tessuto sociale eterogeneo, sarebbe quindi necessario costruire un modello di assistenza globale che operi attraverso un rapporto più stretto con i sistemi di welfare gestiti dai comuni e intervenendo sul grave fenomeno della carenza dei medici di famiglia.
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