L’udienza per il rinnovo della custodia cautelare di Patrick Zaki è questo 7 ottobre, a otto mesi esatti dall'arresto del ricercatore egiziano dell’università di Bologna all'aeroporto del Cairo. La corte avrebbe dovuto decidere già sabato scorso, ma la decisione è stata rinviata. «Patrick non si è presentato in tribunale», dice Hoda Nasrallah, avvocato dell'Egyptian commission for rights and freedom che guida il team legale di Zaki. «Tutti i trasferimenti dei detenuti sono stati bloccati, perciò l'udienza è stata rinviata». Il rinvio per permettere a Zaki di essere presente al prossimo pronunciamento è accolto dal team legale come un segnale positivo. Il motivo ufficiale del blocco dei trasferimenti è la rivolta esplosa la scorsa settimana nel carcere di Tora, dove è detenuto il ragazzo, ma a pesare sulla decisione ci sono anche le proteste scattate nel paese, che hanno già provocato 735 arresti. Lunedì, con una breve nota, la famiglia di Patrick è tornata a chiedere il rilascio: «I rinnovi della detenzione ci spezzano il cuore, siamo terrorizzati dal pensiero che possa non finire mai. Speriamo di riabbracciarlo questa settimana».

Le accuse

I capi d’accusa a carico del ricercatore sono cinque e vanno dalla propaganda eversiva al presunto tentativo di rovesciare il regime. Nel fascicolo della procura egiziana ci sono dieci pagine di post pubblicati su Facebook delle quali nessuno conosce il contenuto preciso: neppure gli avvocati sono riusciti a visionarle. L'unica cosa che la difesa è riuscita ad appurare è che quei post non sarebbero opera di Zaki, perché il profilo social da cui provengono ha tre nomi (anche il suo patronimico George), mentre il vero profilo di Patrick ne ha solo due. Non è l'unica incongruenza nel lavoro degli inquirenti. Come si può leggere in un documento consegnato dalla procura ai legali di Patrick lo scorso febbraio, il fermo di Zaki sarebbe avvenuto nella città di Mansoura l'8 febbraio, e non il giorno precedente all’aeroporto del Cairo, dove era appena atterrato dall'Italia per trascorrere un breve periodo di vacanza in patria. Ciò che accade in quelle ore lo racconta Wael Ghally, primo avvocato ad arrivare sul posto. «Erano le 4 del mattino. Al controllo passaporti dell'aeroporto risultava un mandato di arresto a suo carico, quindi Patrick è stato prelevato e portato in una stanza». Siamo sicuri della bontà di questa ricostruzione perché in quel momento il giovane ricercatore sta parlando al telefono con il padre e riesce a dare l'allarme. Viene poi trasferito, bendato, in una location sconosciuta a circa un'ora di auto dal terminal dove era atterrato. In quel luogo, che secondo i legali era con molta probabilità un edificio dell'Amn el-dawla, il servizio segreto che fa capo al ministero degli Interni, è stato picchiato e torturato utilizzando cavi elettrici. Poi ha subìto il primo interrogatorio sulla sua attività di ricerca che da anni svolge con l’Egyptian initiative for personal rights. Al commissariato di Mansoura, Zaki compare solo alle 11 di mattina del giorno successivo. Che bisogno c'era di posticipare il fermo nel verbale? E di millantare nel fascicolo delle indagini una perquisizione compiuta lo scorso autunno nella casa di famiglia di Zaki, sempre a Mansoura, quando secondo i suoi legali i suoi genitori vivono ormai da otto anni al Cairo e non sarebbero mai stati in grado di aprire alla polizia?

Chi è Patrick Zaki

Zaki è un ricercatore specializzato in studi di genere e minoranze religiose. La sua famiglia fa parte della minoranza cristiano-copta che in Egitto, paese a maggioranza sunnita, rappresenta il dieci percento della popolazione. Aveva preso un periodo di congedo dall'Ecfr, l'Egyptian commission for rights and freedom, per frequentare a Bologna il master Gemma, dedicato agli studi di genere. L'Ecfr è un think tank che si occupa di diritti umani, ha il suo ufficio al Cairo e come molte altre organizzazioni svolge un lavoro divenuto pericoloso a causa della draconiana repressione del governo che ha portato in carcere almeno 60mila detenuti politici da quando nel 2013 l'attuale presidente el-Sisi ha preso il potere con un colpo di stato. La sua vicenda penale ricalca la prassi riservata agli attivisti politici: rinnovo continuo della custodia cautelare per raggiungere il più tardi possibile il rinvio a giudizio. Un limbo amplificato dai continui trasferimenti - Zaki passa dal commissariato al carcere di Mansoura, poi a Talkha e infine a Tora - e dall'emergenza Covid-19 che blocca processi e visite. Solo a fine agosto Zaki ha incontrato la madre. Nelle poche lettere dal carcere ha raccontato di essere preoccupato per gli studi a Bologna (l'anno accademico è ricominciato) ma di stare bene nonostante sia apparso visibilmente dimagrito.

Cosa fa l'Italia

Un amico di Patrick, che preferisce restare anonimo, dice che «l'Italia si sente in colpa per quello che è accaduto a Giulio Regeni, per questo si è mobilitata in maniera importante». La società civile e le istituzioni di Bologna, Comune e università, hanno fatto campagna per la liberazione. Eppure la collaborazione delle autorità cairote coi nostri diplomatici è intermittente, la trasparenza una chimera. Lo scorso luglio il ministro degli Esteri di Maio ha ribadito che «l'attenzione è alta e la Farnesina ha chiesto più volte il rilascio del giovane per motivi di salute». Zaki soffre di asma e a Tora si sono registrati diversi casi di Covid-19. Un gruppo di deputati europei ha inviato una lettera all'ambasciatore italiano al Cairo, Giampaolo Cantini, per chiedere un impegno deciso. Per le norme anti-Covid, i rappresentanti dell'ambasciata al Cairo non possono più assistere alle udienze, ma la sede diplomatica afferma di stare seguendo il caso a distanza e che tornerà in tribunale appena possibile.

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