Nonostante la vaccinazione in pieno svolgimento, oggi si parla molto meno di ritorno alla “normalità”, anche solo rispetto a sei mesi fa. Almeno per il lavoro. E non solo perché il grande esperimento di home working imposto dalla pandemia ha dimostrato che una cultura del lavoro più flessibile non conduce dritti alla rovina, come molti sostenevano prima dei lockdown.

In realtà, la pandemia ha amplificato correnti molto più profonde, che ci stavano già spingendo inesorabilmente verso quella che potrebbe rivelarsi la svolta più significativa della storia del lavoro da diecimila anni a questa parte. Prima del Covid queste correnti erano già visibili: nell’esplosione delle burocrazie, nell’aumento delle disuguaglianze e, soprattutto, nell’inarrestabile cannibalizzazione dei mercati del lavoro prodotta dall’avanzata dell’automazione e dell’intelligenza artificiale.

Per farci un’idea più precisa della dimensione e direzione di queste tendenze – e di come potrebbero trasformare il futuro – dobbiamo guardare alla storia umana da una prospettiva molto più distante di quella assunta di solito da storici ed economisti, e risalire molto più indietro nel passato.

L’origine del lavoro

La nostra specie, Homo sapiens, emerse più o meno 300mila anni fa in Africa. Dedurre dai soli dati archeologici e genetici come vivessero i primi uomini è davvero arduo. Perciò, per rianimare quei frammenti di ossa e quelle schegge di pietra, uniche testimonianze della vita dei nostri progenitori, dagli anni sessanta gli antropologi iniziarono a studiare i gruppi residui di cacciatori-raccoglitori: gli ultimi superstiti dei nostri antenati più remoti, e i più vicini a quello che è stato lo stile di vita dell’Homo sapiens per il 95 per cento della sua storia.

Il più celebre di questi studi descrisse la vita degli ju|’hoan, che discendevano direttamente dai cacciatori-raccoglitori vissuti nell’Africa meridionale fin dagli albori della nostra specie. E ribaltò idee consolidate sull’evoluzione sociale, mostrando che la vita dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori quasi certamente non era stata affatto “brutta, brutale e breve”. Gli ju|’hoan erano ben nutriti e assai più soddisfatti e longevi dei popoli di molte società agrarie; raramente lavoravano più di 15 ore alla settimana, e avevano tempo ed energie da dedicare allo svago. Inoltre, le società di caccia e raccolta su piccola scala rivelate da queste ricerche avevano una tale fiducia nella propria capacità di nutrirsi con poche ore di sforzi spontanei da non preoccuparsi di conservare il cibo, nemmeno quando la natura gliene offriva in abbondanza.

I cacciatori-raccoglitori erano convinti di vivere in un ambiente generoso e, anziché vivere per lavorare, lavoravano per vivere.

Il duro lavoro come virtù e l’ozio come vizio: quest’idea affonda le radici nei campi seminati 12mila anni fa dai pionieri dell’agricoltura. E lo stesso si può dire delle principali istituzioni su cui si fonda la nostra vita economica: denaro, debiti, interesse.

Le tombe delle antiche civiltà agrarie sono piene di ossa ispessite e consunte dal lavoro, che ci ricordano che produrre cibo è molto più faticoso che prenderlo come facevano i cacciatori-raccoglitori. Le civiltà agrarie erano incatenate a un calendario stagionale inesorabile, che decideva quando preparare il terreno, piantare, innaffiare, estirpare, potare, raccogliere, lavorare e immagazzinare il prodotto.

Naturalmente l’agricoltura, una volta affermatasi, si rivelò molto più produttiva della semplice raccolta, ma portava con sé rischi molto maggiori, anche perché le società agrarie tendevano rapidamente a crescere fino ai limiti consentiti dalla capacità produttiva. Poiché di solito quelle società dipendevano da una o due colture altamente sensibili, siccità, inondazioni, incendi, gelo, malattie e infestazioni potevano scaraventarle in una carestia potenzialmente catastrofica. E per gestire questi rischi c’era un unico modo: lavorare ancora di più.

Il centro della nostra vita

A rafforzare ulteriormente quest’etica del lavoro, in tutte le società agricole c’era un legame diretto tra il tempo e la fatica dedicati al lavoro e il premio conseguente. Del resto, gran parte del lavoro era materialmente svolto dagli esseri umani, e una parte notevole serviva a produrre il cibo necessario alla sopravvivenza. Le cose cambiarono quando si scoprì che i motori alimentati da combustibili fossili potevano fare, rispetto ai fragili corpi umani alimentati dal cibo, un lavoro fisico infinitamente maggiore.

Fin dagli albori dell’era industriale gli uomini hanno immaginato un futuro in cui macchine intelligenti ci liberassero dalla necessità del duro lavoro. A ogni balzo in avanti della tecnologia – dal vapore all’attuale convergenza tra digitale, tecnologie biofisiche e intelligenza artificiale – l’automazione si è spinta sempre più in là, offrendo enormi vantaggi di produttività e capitali. Mentre nelle civiltà agrarie dell’antichità, anche nelle più sofisticate, l’80 per cento della popolazione era impegnata a produrre cibo, oggi quella viscerale scarsità appartiene al passato: quello scarso cinque per cento di europei che lavora nell’agricoltura è talmente produttivo che ogni anno finisce nelle discariche una quantità di cibo pari a quello che consumiamo, e uno dei principali indicatori di povertà strutturale è l’obesità, assai più che la denutrizione. Inoltre, la nostra percezione della scarsità viene fabbricata da un gigantesco ecosistema pubblicitario, la cui funzione è persuaderci di non poter più fare a meno di cose di cui fino a quel momento non avevamo bisogno.

Eppure, anziché lavorare meno, continuiamo a preoccuparci di non rimanere esclusi dal lavoro. E invece di esplorare modi alternativi per organizzare la vita lavorativa, siamo decisi a condannare le generazioni future a un’esistenza di riqualificazione continua, mentre la tecnologia le incalza.

Ciò ci dice che il lavoro è ormai il centro della nostra vita, ma anche che siamo una specie testarda, restìa a cambiare abitudini anche quando è chiaro che converrebbe farlo. La storia rivela che le epoche di trasformazione nascono spesso da una grande crisi – una guerra, un disastro naturale, una pestilenza – e che in questi momenti siamo capaci di adattarci rapidamente a nuovi modi di pensare, che presto diventano la nostra nuova abitudine.

Una nuova sensibilità

Raramente la necessità di affrontare le grandi questioni sollevate dall’automazione è stata tanto ovvia. Oltre a catalizzare un’impennata della disoccupazione a lungo termine, il lockdown ha dato slancio a un’ondata di interesse per modelli alternativi di riorganizzazione della vita lavorativa. Molti approcci che oggi si cominciano a prendere sul serio – dalla settimana di quattro giorni al lavoro ibrido – fino a pochissimi anni fa venivano liquidati come non meritevoli d’attenzione. E questa nuova sensibilità è stata incoraggiata dalla partecipazione a un grande esperimento non voluto, ma sorprendentemente riuscito, di lavoro a distanza.

Alla base ci sono anche altre ragioni, più profonde, alcune riconducibili al fatto che, nelle economie sempre più automatizzate, il lavoro umano è sempre più marginale, altre legate al fatto che un’economia che si automatizza è anche un’economia ad alta intensità di capitale, che amplifica le disuguaglianze tra ricchi e poveri e riduce le possibilità di realizzare le proprie aspirazioni solamente attraverso il lavoro. Ma forse la principale motivazione nasce dall’escalation dei danni arrecati all’ambiente dall’idea di “produttività a tutti i costi”, che rischia di cannibalizzare la prosperità conquistata con l’ingegno e il duro lavoro.

Comprendere che la nostra cultura del lavoro è figlia della “sbornia” dell’era agricola e che i cacciatori-raccoglitori lavoravano meno di noi non ci offre risposte su come organizzare le nostre economie sempre più automatizzate, ma è innanzitutto un promemoria sulla follia di rimanere aggrappati, in un’era di produttività senza precedenti, alla necessità di lavorare costantemente. E ci ricorda che ci troviamo nel pieno di quella che probabilmente è la più grande transizione della storia umana dall’avvento dell’agricoltura; che questo è un territorio inesplorato; e che per adattarci dobbiamo aprirci alla sperimentazione di nuovi modi di fare.

Traduzione di Marco Cupellaro.


James Suzman è autore del libro “Lavoro. Una storia culturale e sociale”, edito da Il Saggiatore.

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