Continua con la sua quinta puntata la rubrica “Politica resiliente” curata da Avviso Pubblico, l’associazione nata nel 1996 per riunire gli amministratori pubblici che si impegnano a promuovere la cultura della legalità democratica.

«Si può concludere che i componenti abbiano pienamente realizzato il loro programma associativo di tipo ‘ndranghetista: quello di condizionare il voto nelle competizioni elettorali comunali e regionali». È un estratto dalle motivazioni di una sentenza, simile ad altre, che descrive la presa di un clan mafioso sulla politica locale. A renderla storica è la sua collocazione geografica, uno degli ultimi territori ostinatamente legato alla narrazione di “isola felice”, non intaccata dall’infezione mafiosa: la Valle d’Aosta.

Tre Presidenti regionali hanno chiesto sostegno elettorale alla ‘ndrangheta

L’inchiesta Geenna (gennaio 2019) condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Torino e la successiva sentenza di primo grado (settembre 2020) hanno cancellato l’anacronistica e dannosa rappresentazione: «Tale risultato (il condizionamento del voto, ndr) è stato pienamente raggiunto nelle elezioni del consiglio regionale del 2018, quando almeno quattro candidati hanno conseguito l’elezione a consigliere regionale con il contributo della ‘ndrangheta […] Risulta poi significativo, ai fini della prova dell’importanza che la ‘ndrangheta valdostana aveva assunto nella politica locale, che ben tre Presidenti della Regione Autonoma Valle d’Aosta, succedutisi nel tempo, si siano rivolti al sodalizio criminale per ricercarne il sostegno elettorale», spiegano i giudici di primo grado.  

Sono dodici i condannati del processo con rito abbreviato conclusosi sul finire della scorsa estate. Tra questi l’ex consigliere regionale Marco Sorbara e l’ex consigliere comunale di Aosta Nicola Prettico per concorso esterno in associazione mafiosa, oltre ad Antonio Raso, sulla carta un ristoratore, ma secondo gli inquirenti il boss della cellula ‘ndranghetista trapiantata ad Aosta.

L’undicesima regione con almeno un Ente locale sciolto per mafia

Ad arricchire il quadro, nel febbraio dello scorso anno, è giunto anche il primo scioglimento per infiltrazioni mafiose di un comune della regione: Saint-Pierre, paese di poco più di tremila abitanti posto a venti chilometri dal capoluogo. La Valle d’Aosta si iscrive così al club delle regioni con almeno un Ente locale sciolto per condizionamento mafioso, assieme a Calabria, Campania, Sicilia, Puglia, Basilicata, Piemonte, Lazio, Liguria, Lombardia ed Emilia-Romagna.

Nella relazione del ministro dell’Interno allegata al decreto di scioglimento si sottolinea come «l'uso distorto della cosa pubblica si sia concretizzato, nel tempo, in favore di soggetti o imprese collegati direttamente o indirettamente all'organizzazione criminale egemone» ed «evidenzia l'appoggio elettorale che il sodalizio criminoso ha assicurato al citato amministratore (l’assessore Monica Carcea, anch’essa condannata in primo grado per concorso esterno, ndr) ponendo in rilievo che, sebbene si sia candidato per la prima volta alle elezioni amministrative nel 2015, senza alcuna precedente esperienza politica, è risultato il secondo candidato più votato della lista di appartenenza».

Dalla relazione della Commissione d’accesso emerge inoltre come «la locale organizzazione criminale sia intervenuta a supporto dell'indicato amministratore per risolvere i rapporti conflittuali insorti con gli altri esponenti della compagine politica comunale, che contestavano il suo operato, al fine di farli desistere dalle rimostranze». Risultano infine una serie di circostanze – assegnazioni di appalti, irregolarità nel rilascio di autorizzazioni, contratti di locazione di alcuni beni comunali a persone legate al capoclan – che «attestano una gestione amministrativa avulsa dal rispetto delle regole».

L’inchiesta Geenna non è l’unica sulla presenza mafiosa in Valle d’Aosta coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Torino: l’indagine Egomnia, ancora in corso, ne ha raccolto il testimone, anche grazie a nuovi elementi emersi dal processo di primo grado.

La sottovalutazione del fenomeno

Le reazioni alla “presa” della Valle d’Aosta da parte della ‘ndrangheta sono state perlopiù impregnate di stupore. Le medesime registrate nel 2020 per l’inchiesta Perfido in Trentino. Eppure, ancora una volta, gli elementi per alzare la guardia in territori “non tradizionalmente mafiosi” c’erano tutti. Da tempo.  

Pochi giorni dopo l’operazione Geenna, il procuratore generale della Repubblica di Torino, Francesco Saluzzo, inaugurando l’anno giudiziario pronunciava parole durissime: «S’era detto che in Valle d’Aosta non vi fosse la ‘ndrangheta, esponenti della politica non avevano fatto mancare di far sentire la loro voce sdegnata per respingere quella possibilità. Quando, evidenze - anche antiche - dicevano il contrario. Ora, forse, questi motivetti finiranno di essere suonati […] quel che mi preoccupa è la persistente sottovalutazione del fenomeno che si coglie nell’opinione pubblica […] Questo atteggiamento ha aiutato ed aiuta le organizzazioni mafiose. Non basta la risposta giudiziaria, occorre una presa di coscienza ed un atteggiamento di ripulsa e di rigetto delle persone, delle comunità e delle istituzioni».

“Quello continuerà a far danni”

Non tutta la politica locale aveva reagito nel modo descritto dal procuratore. C’era chi la presenza mafiosa e i pericoli ad essa connessi li vedeva ed evidenziava da anni, arrivando a chiedere, già nel lontano 2012, l’istituzione di un Osservatorio antimafia regionale.

Per anni Alberto Bertin, consigliere regionale, eletto per la prima volta nel 2008 e confermato nelle due successive tornate elettorali, ha denunciato numerose situazioni anomale. In risposta veniva descritto come un visionario, una Cassandra, perché le sue denunce danneggiavano l’immagine della Valle d’Aosta. Un copione già visto e rivisto nel Nord Italia, recitato in diverse regioni, prima che grandi inchieste della magistratura riuscissero a cancellare la narrazione delle “isole felici” dotate di presunti “anticorpi naturali” all’infiltrazione mafiosa.

A certificare il fastidio suscitato dalle denunce di Bertin è il boss Antonio Raso in persona, intercettato mentre parla del consigliere regionale: «Quello ha fatto danni e continuerà a fare danni […] finché qualcuno non gli fa i mussi tanti». Più chiaro di così.

«La presenza della 'ndrangheta in Valle d'Aosta è ultradecennale. La nostra regione ha beneficiato in anni non lontani di un certo benessere, con l'edilizia e il turismo in grande espansione, settori economici notoriamente di interesse dei clan», evidenzia Bertin. Una presenza discreta, fatta eccezione per un paio di omicidi frutto di un regolamento di conti interno alle ‘ndrine. «Ma i cosiddetti reati spia non sono mancati, come ad esempio numerosissimi incendi dolosi. Ciononostante si è preferito, da parte di molti, per interesse o superficialità, guardare da un'altra parte, riproponendo il solito cliché dell'isola felice. Un atteggiamento colpevole e grave le cui conseguenze sono evidenti in questi giorni», sottolinea il consigliere regionale.

Sconcerto e incredulità sono state le prime reazioni dell’opinione di fronte all’emergere di un sistema criminale, talmente oliato e radicato, da essere in grado di condizionare pesantemente l’esito del voto locale. «Credo anche ci sia stata una presa di coscienza della gravità della situazione – spiega Bertin - Il contrasto alle organizzazioni criminali mafiose è una questione politica. La 'ndrangheta ha trovato un terreno fertile anche in ragione di un clientelismo diffuso e alla mentalità ad essa collegato. Le modalità inaccettabili di raccolta del consenso elettorale portate alla luce del sole dalle indagini ne sono un esempio. Fatti gravissimi che hanno infangato e delegittimato le Istituzioni. L'auspicio è che non si dimentichi, perché anche la memoria rappresenta un fattore importante di contrasto al malaffare. Si è diffusa comunque una maggiore consapevolezza che, in parte, si è riflessa anche nei risultati elettorali dell'autunno scorso. Ora è necessario che tutti si diventi parte attiva nel contrastare la diffusione delle organizzazioni criminali mafiose».

Se una comunità cede, il suo futuro è compromesso

Il 20 e 21 settembre 2020, una settimana dopo la sentenza Geenna, la Valle d’Aosta è tornata al voto per eleggere il nuovo consiglio regionale. Nonostante la presenza nelle liste di un candidato giudicato “impresentabile” dalla Commissione parlamentare antimafia, a causa di una condanna in primo grado per corruzione, le elezioni hanno rappresentato un punto di (ri)partenza. Alberto Bertin è stato eletto per la quarta volta. Il 20 ottobre il neo insediato Consiglio regionale lo anche ha scelto come presidente.

«Non me l'aspettavo – ammette – È un ruolo che comporta maggiore responsabilità anche in relazione al contrasto alle mafie. La Valle d'Aosta ha la necessità e l'obbligo di voltare pagina, senza ambiguità. L'esperienza deve insegnare a tutti che negare l'esistenza di un fattore come quello della 'ndrangheta ha conseguenze estremamente negative. Informare e continuare a mantenere alta l'attenzione sul fenomeno è un aspetto determinante. Insomma, bisogna continuare a parlarne perché il silenzio rappresenta l’ombra in cui l’azione malavitosa si muove meglio. È dovere delle istituzioni dotarsi di ogni strumento in grado di contrastare le mafie, ad iniziare, per quanto riguarda la nostra regione, di un Osservatorio permanente sul fenomeno mafioso. È necessario anche coinvolgere la cittadinanza in una guerra senza quartiere alla criminalità organizzata. Quando una comunità cede sulla legalità il suo futuro è compromesso».

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