Non basta che qualcuna sfondi il tetto di cristallo, perché guardate cosa succede intanto a tutte: a pagare la crisi sono soprattutto le donne. Siamo sempre noi - non proprio sempre, ma diciamo da qui a Domani; il futuro sta a noi, e lo faremo differente. Perché dico che pagano le donne?

Per cominciare, guadagniamo, all’ora, in media, il 7,4% in meno rispetto ai maschi; la convivenza “stretta” dell’isolamento ci ha riavvicinati (nel senso che gli uomini hanno contribuito di più al lavoro familiare) ma siamo noi a cucinare (lo fanno 8 donne su 10 e solo 4 uomini su 10) e a farci carico della cura dei figli, ancor più se i nonni non possono dare una mano (tutto questo in realtà lo dice l’Istat).

Prima che la redazione di Domani prendesse corpo, c’era l’ennesima polemica su Immuni, la app che al momento del lancio esordì (per poi fare ammenda) con l’immagine di una donna che culla un neonato e un uomo al computer.

Quella rappresentazione stereotipata - la donna assorbita dalla famiglia e l’uomo “Ulisse tecnologico” che si fa carico del progresso – purtroppo metteva in scena un dato reale.

Questa delle donne che “pagano la crisi” non è (solo) una “storia all’italiana”, anche se una crisi mette a nudo le debolezze e quindi sì, c’è chi vede un problema italiano; la impossibilità di coniugare lavoro e famiglia ha del resto portato già nel 2019 quasi 38mila donne a rassegnare le dimissioni.

Esistono Paesi che supportano di più le donne, ma il quadro complessivo non è incoraggiante. Lo mostra bene il lavoro di Abi Adams-Prassl, Teodora Boneva, Marta Golin e Christopher Rauh, che insegnano e fanno ricerca nelle università di Oxford, Cambridge, Zurigo.

Il progetto di cui si occupano (il Covid Inequality Project) punta il dito proprio sul tema delle diseguaglianze - un tema che sta a cuore a Domani. E la ricerca Inequality in the impact of the Coronavirus Shock offre fatti, numeri, piste interpretative. Anzitutto si scopre che questa non è “la solita” recessione, dove cioè è più probabile che a perdere il lavoro siano gli uomini; esiste una disparità di genere a sfavore delle donne, nella specifica crisi covid.

L’indagine che Adams-Prassl, Boneva, Golin e Rauh hanno condotto su Germania, Regno Unito e Stati Uniti mostra che in tutti e tre i casi chi ha la possibilità di svolgere i compiti da casa rischia di meno di perdere il lavoro; e in tutti e tre i contesti, sono le donne a spendere più tempo con i figli, anche per aiutarli con l’attività scolastica. Ma gli scenari non sono omogenei.

Alcuni casi offrono speranze. La Germania infatti ne esce meglio: a Berlino il lavoro di cura svolto dalle donne non corrisponde in modo netto a un maggiore rischio di perdere il lavoro, come invece avviene nei contesti anglosassoni. Come mai? Anzitutto, tra i tedeschi, il numero di maschi (41%) e femmine (39%) che riescono a lavorare da casa è all’incirca omogeneo, mentre nei contesti britannici ed americani le donne hanno più difficoltà. Poi in Germania c’è la possibilità collaudata di lavorare a orari ridotti - di “lavorare meno, lavorare tutti” insomma.

Il meccanismo si inceppa invece quando (noi donne) “dobbiamo fare tutto”: se quelle figure della app fossero realistiche, le ragazze avrebbero sia il pc in mano che la creatura in braccio.

La questione è così evidente che non c’è bisogno di figure e se ne stanno accorgendo tutti: “In tutto il mondo le donne guadagnano meno, risparmiano meno, hanno lavori meno sicuri, rischiano di più di lavorare in nero e hanno meno accesso agli ammortizzatori; ecco perché la loro capacità di assorbire gli shock economici è minore di quella degli uomini” conclude l’Onu.

Assorbiamo di meno gli shock. Siamo meno “elastiche” (anche se a noi pare di fare i salti mortali). Siamo meno “resilienti”, per usare una parola che va tanto di moda (la resilienza ce la chiede l’Europa, la resilienza ce la consiglia pure Mark Rutte, il premier olandese tra le file dei “frugali”). Che fare allora? Diventare (ancora più) elastiche noi, oppure dichiarare che è il sistema che non regge e che va ripensato?

In tempi non sospetti (ben prima della pandemia) la filosofa newyorchese Nancy Fraser ci aveva messe in guardia: il femminismo “modaiolo e individualista” serve a poco, nel momento in cui alle donne viene chiesto di lavorare - ma malpagate, con salari bassi e in condizioni precarie - e allo stesso tempo di svolgere compiti di cura - non pagati, non considerati, e mentre allo stesso tempo viene tagliata la spesa sociale. Più che emanciparci, avvertiva lei, “stiamo sostituendo un vecchio modello di svantaggio con uno nuovo”.

Cosa dice di noi ora il “grande specchio” della crisi?

Che non basta avere donne in posizioni apicali, che non possiamo festeggiare per il semplice fatto che Christine Lagarde (donna) guidi la Banca centrale europea, che Ursula von der Leyen (donna) presieda la Commissione europea, che Angela Merkel (donna) abbia appena assunto la presidenza del semestre europeo e che quindi presieda il Consiglio dell’Ue.

Per inciso: anche sul fronte dei tetti, l’opera di sfondamento non è certo al completo. L’Autorità bancaria europea è appena finita nel mirino proprio per la mancanza di donne al vertice: questo 2 luglio, rimarcando che ci vogliono donne in posizioni chiave, il Comitato per le questioni economico-monetarie dell’Europarlamento si è opposto alla nomina di François-Louis Michaud come direttore esecutivo dell’authority; la rappresentanza femminile ai vertici è fondamentale, dice il parlamento europeo, e la palla passa ora (mercoledì) alla plenaria. Pure per sfondare i tetti, insomma, bisogna spingere ancora.

Ma quello che conta è in che direzione orientiamo il futuro, quali prospettive costruiamo.

Qui arriva Domani. Non ci arriva solo perché in questa redazione (sotto il tetto di un palazzo che ancora, insieme a voi, dobbiamo costruire) le donne ci sono e dicono la loro. Ci arriva soprattutto perché una è tante, perché facciamo spazio per tutte.

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