Mercoledì l’arrivo del piccolo Adam. Dal 2023 arrivate oltre 450 persone. Spesso vengono ospitati in centri dove l’accoglienza è inadeguata
Feriti in una guerra di cui sono vittime, evacuati all’estero per essere curati e poi lasciati nella precarietà, in attesa di tornare. È il destino di molti civili, per la maggioranza donne con figli minori, arrivati in Italia da Gaza per motivi sanitari. I settanta cittadini palestinesi arrivati nel nostro paese si aggiungono agli oltre 450 che, secondo la Farnesina, sono stati trasferiti a partire da ottobre 2023.
Tra i minori c’è Adam, 11 anni, l’unico di nove fratelli a essere sopravvissuto a un bombardamento israeliano, che ha ucciso anche suo padre. Verrà ricoverato al Niguarda di Milano, accompagnato dalla madre, la pediatra Alaa al-Najjar.
Mentre i voli umanitari erano attesi a Linate, accolti dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella da Lussemburgo ha ricordato che «quello che sta avvenendo a Gaza è inaccettabile».
Vuoto legislativo
Più di cento persone trasferite nel nostro paese sono state gravemente ferite dai bombardamenti israeliani. Tra loro molte bambine e bambini. In Italia vengono curati ma spesso, dimessi dall’ospedale, inizia un percorso tortuoso fatto di burocrazia, vuoti legislativi e ambiguità. In altre parole, un’accoglienza mancata o, nel migliore dei casi, inadeguata, per persone ferite e traumatizzate.
«Una donna è stata evacuata in Italia con la figlia 17enne. Entrambe ferite dai bombardamenti, sono rimaste in un Centro di accoglienza straordinaria (Cas) a Padova per sei mesi, con un pocket money di 9 euro al giorno per mangiare e nessun supporto psicologico», dice Glores Sandri attivista che, insieme ad altre volontarie, ha attivato un progetto per donne incinte e con neonati, che fornisce aiuto alle famiglie palestinesi a Milano e Torino.
«Sono le uniche due sopravvissute della famiglia e sono rimaste sotto le macerie della loro casa bombardata per molte ore. La figlia ha ustioni molto importanti che non sono state curate in modo adeguato», continua Sandri. Oggi si trovano al Cairo. A Padova, un’altra donna con le sue tre figlie, «una delle quali gravemente ustionata alla testa, sono state costrette a vivere con famiglie e altri nuclei familiari in un Cas», racconta Sofia Marinelli, attivista veneta.
A differenza di altre recenti crisi umanitarie per i gazawi non è stata prevista alcuna protezione adeguata alla gravità della situazione e alla peculiarità del contesto palestinese. Nel 2022 per i profughi ucraini era stata riattivata una direttiva europea silente dal 2001, permettendo loro di godere di una protezione temporanea. L’anno precedente il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) aveva ampliato il numero di posti riservati ai cittadini afghani fuggiti dal paese dopo il ritorno dei Talebani.
Accoglienza inadeguata
Per i rifugiati gazawi, invece, non c’è nulla di tutto questo. Dopo le cure ospedaliere, che possono durare anche mesi, le famiglie evacuate non godono di nessuna corsia dedicata per l’ospitalità nel sistema italiano. Così in molti si ritrovano assegnati dalle prefetture nei Cas, il circuito su cui la politica ha investito negli ultimi anni, a scapito del Sai. Quest’ultimo, il sistema ordinario, è gestito dai comuni e basato su una serie di servizi più solidi e su un’accoglienza diffusa in appartamenti più congrui alle esigenze di famiglie con minori, a maggior ragione se feriti in convalescenza.
L’unico vago riferimento normativo è rintracciabile nel decreto Piantedosi, che apre il Sai a chi è arrivato «a seguito di protocolli per la realizzazione di corridoi umanitari». «I Cas sono strutturalmente inadeguati alle situazioni vulnerabili», spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà.
«Nei casi di grande vulnerabilità si può fare richiesta di ingresso nel Sai, ma oggi non c’è garanzia né di qualità che di quantità, perché il sistema è stato smantellato», tanto da non reggere nemmeno le domande ordinarie. «Il modello promosso è quello di luoghi collettivi altamente controllati», denuncia Schiavone. Insomma, anche se si riconoscesse la vulnerabilità le famiglie non avrebbero accesso agli alloggi del Sai.
Il Viminale interrogato sottolinea che «se le persone chiedono asilo vengono ospitate nei Sai e, solo se non c’è posto, sono trasferite nei Cas». Per questo, «le situazioni vanno viste caso per caso».
Solidarietà dal basso
Non rimangono che i Cas, spesso casi centri collettivi inadeguati con scarsi servizi di assistenza. «Abbiamo faticato per dare assistenza e vicinanza umana e materiale a donne con bambini spesso feriti, persone incredibilmente traumatizzate che a volte vengono lasciate a loro stesse dopo le dimissioni dall’ospedale. È chiaro che questo meccanismo non funziona», evidenzia Sandri.
In molti casi a colmare i vuoti normativi ci hanno pensato le reti di attivismo e cittadinanza che si sono create spontaneamente, trovando spazi più adeguati per le famiglie. A meno che non ci siano enti disponibili ad accogliere, come la Comunità di Sant’Egidio che dà ospitalità nelle sue strutture, da circa un anno e mezzo, a 45 persone evacuate da Gaza.
Non è solo un problema di mancanza o inadeguatezza di posti, ma anche di rispetto della volontà delle evacuate. Il sistema di accoglienza è di norma dedicato a chi ha richiesto o già ottenuto l’asilo.
Ma in molti non hanno intenzione di rimanere in Italia: «Alcune delle donne a cui abbiamo fornito assistenza non vogliono fare richiesta d’asilo, perché sono venute per far curare i propri figli per poi tornare in Palestina, quando si potrà. Sanno che con l’asilo politico è più difficile rientrare», sottolinea Sandri. Se Tajani ha assicurato che l’Italia «continua ad accogliere cittadini palestinesi di Gaza» e a lavorare «per la pace», per Schiavone le criticità dell’accoglienza non sono date da lentezze amministrative, ma dalla totale assenza di un sistema strutturale. E questo dipende dalla volontà politica.
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