L'apartheid della protesta. È una bizzarra concezione della libertà d'espressione e dissenso, quella proposta dal Cio agli atleti dei Giochi di Tokyo 2020+1. Giunge al termine di ciò che lo stesso comitato olimpico internazionale presenta come un lungo processo di consultazione, partito a giugno dell'anno scorso e passato attraverso la raccolta delle opinioni di oltre 3.500 atlete e atleti di ogni nazionalità e disciplina, condotta dall'Athletes Commission (AC) dello stesso Cio. Oggetto: la riforma della regola numero 50 dell'Olympic Charter, il cui oggetto è “Pubblicità, dimostrazioni, propaganda”.

La soluzione annunciata a aprile 2021, dopo 10 mesi trascorsi a raccogliere e elaborare dati, voleva essere un ragionevole compromesso. E invece peggiora la situazione, con un surplus di ipocrisia che fa definitivamente gettare la maschera ai signori dei cinque cerchi. La loro sola urgenza è che non venga sporcata la scena. Ciò che con parole schiette è stato rimarcato, fra gli altri, da Dina Asher-Smith, velocista britannica ma anche icona dell'impegno sociale e della comunicazione.

La soluzione di compromesso

Il nuovo equilibrio raggiunto intorno all'articolo 50 dell'Olympic Charter è il frutto di una survey condotta dall'AC che ha coinvolto 3.547 fra atlete e atleti. Nella vecchia versione l'articolo recitava, nel passaggio che qui interessa: “Nessun tipo di dimostrazione o di propaganda di carattere politico, religioso o razziale è consentito in luoghi, impianti e altre aree legati alle Olimpiadi”. Una formulazione che non ammetteva alcun margine, abbondantemente superata dal tempo, e che in epoca di Black Lives Matter rischiava di essere ridicolizzata.

Rispetto a essa, la nuova versione pretende di consentire delle aperture. Quali? Esse vengono indicate nelle 3 paginette di linee guida proposte dal Cio per fare la chiosa al lavoro dell'AC. Dove in realtà spiccano più le limitazioni che le possibilità. Si legge infatti a pagina 2: “Dove le dimostrazioni e le proteste non sono permesse nel corso dei Giochi Olimpici?”. E la risposta è tutta in una lista che praticamente azzera ogni margine: a) sul campo da gioco; b) nel Villaggio Olimpico; c) durante le cerimonie di conferimento delle medaglie olimpiche; d) durante le cerimonie di apertura, di chiusura e ogni altra cerimonia ufficiale. A questa totalizzante lista di circostanze e luoghi proibiti, le linee guida aggiungono una raccomandazione che suona vagamente paternalistica: “Ogni dimostrazione o protesta al di fuori dei luoghi olimpici deve, ovviamente, tenere conto delle legislazioni locali qualora esse proibiscano tali azioni”.

Liberi di usare i vostri social

 Dunque, di fatto, è proibito tutto e ovunque laddove si tratti di scena olimpica. L'apartheid della protesta e della libertà d'espressione. E nel tracciare questa catena di divieti il Cio menziona ancora una volta la survey dell'AC, dalla quale risulta fra l'altro che il 70% dei rispondenti si è espresso contro le dimostrazioni sui campi da gioco e durante le cerimonie ufficiali, mentre il 67% ha detto no a tali manifestazioni sul podio delle premiazioni.

Ma allora, preso atto di cosa e dove sia vietato, dove starebbero “il compromesso” e i “nuovi spazi di libertà”? Ancora una volta le linee guida danno una risposta. E dicono che è possibile dimostrare e protestare nei seguenti luoghi e circostanze: a) durante le conferenze stampa e le interviste, siano esse realizzate in mixed zone, nell'International Broadcasting Center o nel Main Media Center; b) nel corso dei team meeting; c) sui media digitali o tradizionali e su altre piattaforme. Dunque scopriamo che il Cio dà (pretende di dare) a atlete e atleti la libertà di dimostrare e protestare attraverso i propri account di Twitter, o Facebook, o Instagram. Domanda: riteneva di poterla loro negare?

Spararsi a un piede

Contro queste limitazioni sono stati espressi dissensi. Meno di quanti fosse auspicabile, invero. Ha subito bocciato il nuovo corso lo sprinter britannico Adam Gemili. E sempre dal mondo dello sprint britannico è giunta una voce di ben altro impatto mediatico: quella di Geraldina “Dina” Asher-Smith, una fra le protagoniste annunciate dei Giochi.

Classe 1995, campionessa mondiale in carica sui 200 metri (oro conquistato a Doha 2019), Asher Smith è anche un personaggio a tutto tondo. L'ultimo numero dell'edizione britannica di Vogue le ha dedicato ampio spazio e la copertina digitale. Inoltre l’atleta ha dimostrato uno straordinario spessore culturale scrivendo un articolo di commento per il Daily Telegraph a proposito della morte di George Floyd e del movimento Black Lives Matter. Dunque, un personaggio la cui opinione non cade certo nel vuoto.

Nei giorni scorsi il Guardian ha riportato la sue parole riguardo all'intervento del Cio sulla regola 50. Un intervento che in parte Asher-Smith appoggia pure, ma che proprio non accetta laddove pretenda di limitare le manifestazioni di protesta espresse sul podio. E ricordando il pugno guantato di nero, esibito da Tommie Smith e John Carlos verso il cielo di Città del Messico 1968, Dina sottolinea come quello sia stato uno dei momenti più iconici nella storia dello sport. “Vorranno mica punire un gesto come quello? Sarebbe come spararsi a un piede” ha detto la campionessa britannica. Non sa che i signori del Cio sarebbero capacissimi di farlo. Fra le tante doti di cui difettano non si può annoverare certo l'autolesionismo.

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