Oltre i femminicidi: quella violenza che la comunità non legge

Luciana Ronchi, 62 anni, è stata uccisa il 22 ottobre a Bruzzano, a nord di Milano, dall’ex compagno, Luigi Morcaldi, che l’ha inseguita per una cinquantina di metri colpendola con un coltello. Conoscenti hanno raccontato che lei l’aveva allontanato per il suo atteggiamento violento, mentre lui si appostava vicino casa della donna da almeno un mese. Sempre a Milano, una settimana prima, Pamela Genini, 29 anni, è stata colpita a morte con trenta coltellate dall’ex compagno, Gianluca Soncin, che si era introdotto in casa di lei facendo un doppione delle chiavi. Secondo quanto ricostruito, maltrattamenti e minacce di morte andavano avanti da oltre un anno e mezzo. Alle amiche Genini aveva inviato foto di lividi e graffi, «non poteva neanche andare in palestra, le aveva fatto lasciare il lavoro», ha raccontato una di loro. In queste due vicende recenti, come nella quasi totalità dei casi, il femminicidio è solo l’ultima di una serie di violenze. «Ci sono sempre campanelli d’allarme precedenti, l’escalation potrebbe essere intercettabile se ci fossero le informazioni giuste per indirizzare le donne prima che si trovino in situazioni di estremo pericolo», spiega Manuela Ulivi, presidente della Casa di accoglienza donne maltrattate (Cadmi) di Milano. Mara Carfagna: «La scuola deve parlare di violenza sulle donne, bullismo e omofobia al di là di come la pensano le famiglie» Riconoscere la violenza «C’è una mancanza di conoscenza della violenza, di come questo fenomeno si articola nella vita individuale, personale, intima. E di quali sono gli strumenti che occorrono per disinnescarla. Tutti parlano di violenza e tutti pensano di saperla affrontare. Ma non è così», spiega Simona Ammerata, attivista operatrice della casa delle donne Lucha y Siesta di Roma e consigliera nazionale della rete dei centri antiviolenza D.i.re. Spesso, proprio per questa mancanza di conoscenza a livello generale, anche chi si trova accanto alla persona che vive una situazione di abuso fatica a riconoscere la violenza, o si trova a non sapere cosa fare. «La rete amicale o parentale non può sostituirsi a un sistema più complesso che dovrebbe vedere tutti gli attori in una condizione di consapevolezza, riconoscimento e coinvolgimento: l’apparato istituzionale, i tribunali, la scuola, il sistema antiviolenza locale. E, ovviamente, anche la società civile», aggiunge Ammerata. «Quello che si può fare è mettersi in una dimensione di attenzione e ascolto, non colpevolizzando e non giudicando. Mettersi al fianco di quella persona, provando a fare domande e a capire. E soprattutto accompagnarla al centro antiviolenza». Nel sito di Cadmi è presente una doppia guida: una per chi cerca aiuto per sé stessa, e una per chi si trova accanto a una persona che ha subito o sta subendo violenza. «Lo sguardo e l’aiuto di chi sta intorno, se informato e competente, è fondamentale. Pensare solo all’intervento, chiamare la polizia, non è sufficiente. A parenti, amici, sorelle, datori e colleghi di lavoro diciamo di essere accoglienti e di indirizzare quella persona al Centro antiviolenza per valutare insieme cosa è più utile fare», dice la presidente Ulivi. «Non sempre i familiari sono disposti, perché sono ovviamente dispiaciuti o perché prendono le loro posizioni rispetto al compagno che magari conoscono. Ma questo è un passaggio fondamentale, tutti dovrebbero saperlo». Foto sui social, asimmetrie e vizi: solo alle donne è chiesta autocritica Rendere visibile il lavoro dei Cav Secondo le operatrici il lavoro dei Centri antiviolenza (Cav) non è sufficientemente conosciuto. «Spesso sono offuscati da iniziative che dicono alle donne solo di denunciare. Ma la denuncia non è uno strumento di protezione, a meno che non vengano immediatamente assunte misure cautelari e ci sia la capacità da parte dei magistrati, della polizia e di chi intercetta queste situazioni come pubblico servizio di capire la condizione di pericolo», afferma Ulivi. C’è poi la convinzione che al Cav si arrivi solo nei casi più gravi. «Ma questo non è assolutamente vero», spiega Ammerata di Lucha Y Siesta. «Il centro antiviolenza può fare uno, due, dieci o venti colloqui anche per due anni, a seconda della situazione. Ci sono persone che hanno necessità di un aiuto piccolo, perché hanno già fatto dei pezzetti di percorso da sole o hanno bisogno solo di riconoscere ed elaborare l’immaginario simbolico dentro cui siamo cresciute per quanto riguarda relazioni e ruoli di genere». Esistono invece delle situazioni più complesse, in cui è necessario più tempo, e non basta solo l’elaborazione ma serve anche il supporto legale, economico o psicologico. Ma «bisogna rompere quella falsa credenza che per cui il centro antiviolenza è soltanto per condizioni gravissime, talmente gravi che poi le persone non pensano di rientrare in quella categoria». Denunce, storie e “contesto”: così si contano i femminicidi La vergogna deve cambiare lato Una delle questioni centrali è che ancora oggi chi vive in una situazione di abuso sente su di sé lo stigma. «E invece la vergogna non è di chi la subisce la violenza, come ha detto Gisèle Pelicot “deve cambiare lato”. Non c’è colpa nel subire violenza», dice Ammerata, che accusa il «rovesciamento continuo e costante delle responsabilità da chi agisce la violenza a chi la subisce». «Basta vedere la recente sentenza di Macerata su un caso di violenza sessuale o le narrazioni del femminicidio di Pamela Genini a Milano e il concentrarsi sulla mancata denuncia della donna». Secondo l’attivista di Lucha Y Siesta, «è come se gli uomini ricevessero questo insegnamento, che si propaga anche attraverso le aule dei tribunali o i giornali, per cui la violenza è una possibilità, può essere una soluzione. Ecco, finché sarà così questa condizione non cambierà mai». Se hai bisogno di aiuto o sostegno puoi chiamare il numero nazionale gratuito antiviolenza e stalking 1522, attivo 24 ore su 24. Le operatrici specializzate forniscono un primo ascolto sotto garanzia di anonimato, informazioni, supporto e possono indirizzarti verso il centro antiviolenza più vicino. Femminicidio di Pamela Genini, rifondare le relazioni sociali per spezzare un ordine