Ognuno di noi, credo, ricorda i versi di un grande poeta italiano, Giovanni Pascoli, “O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna”. Chi non è più ritornato è Ruggero, il padre del poeta, assassinato con una schioppettata mentre rientrava a casa da solo, e cadendo dal calesse lasciò la cavalla storna rientrare senza il suo padrone. Era il 10 agosto 1867. Anni dopo nella ricorrenza del luttuoso anniversario, il 10 agosto 1904, prende carta e penna e scrive ad un altro orfano, Leopoldo Notarbartolo figlio del più noto Emanuele che era stato direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1° febbraio 1893.

I due hanno avuto la “medesima sorte” dice Pascoli: sono orfani di un padre assassinato, anche se è «ineffabilmente meglio esser figli di un assassinato che d’un assassino!», hanno cercato la verità senza trovarla, si sono scontrati con un muro di silenzio, «tutti sanno, almeno, in Romagna», e di complicità delle autorità che hanno impedito di portare alla luce assassini e mandanti. «Mi sono occupato molto di rintracciare gli assassini, ma era troppo tardi! Nessuno parlava, o riferiva voci vaghe, che naturalmente io riferii a mia volta; ma prove, nessuna». Anzi, Pascoli rischiò addirittura di essere arrestato per l’insistenza delle sue ricerche. Anche Leopoldo cercò fino alla fine di fare luce sui fatti. «La polizia, continua Pascoli, seppe probabilmente tutto, ma non volle approfondire. In Romagna c’era allora uno spirito di setta, dall’apparenza politica, e dalla sostanza delinquente volgare che era tal quale la mafia, se non peggio».

Il carteggio di Pascoli mi è stato segnalato dal mio amico Ennio Grassi, anche lui romagnolo. Chi ha approfondito le ragioni dell’assassinio di Ruggero Pascoli è Rosita Boschetti, Omicidio Pascoli. Il complotto, Mimesis 2014. Io ho ricostruito l’altro omicidio, “Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo? Il primo omicidio politico-mafioso”, Salerno 2019.

Omertà nazionale

Il discorso che fa Pascoli è potente. Accomuna i due omicidi sotto la medesima categoria – l’omertà – anche se quel termine non c’è; ma c’è la sostanza. Non si sbagliava, anzi coglieva un aspetto che allora non andava di moda e cioè che l’omertà non era nel codice genetico dei meridionali ma era una questione molto complessa.

La conferma ci viene da alcune vicende trovate nei documenti dell’Archivio centrale dello Stato. Prendiamo ad esempio quello che successe a Medicina in provincia di Bologna nel maggio del 1889 quando le risaiole che lottavano perché tutte avessero la stessa paga giornaliera, stanche delle promesse delle autorità, al grido di “Abbiamo fame, abbiamo fame” presero d’assalto i forni. Alcune furono arrestate perché riconosciute dagli «agenti della Pubblica Forza». Le altre non furono individuate neanche dai fornai. Molti «dichiararono di non aver riconosciuta alcuna; il che è evidentemente impossibile, ma ciò si spiega pensando alla inconsulta ritrosia, abituale in molti popolani romagnoli, di denunziare all’autorità inquirente i colpevoli. I restanti testi sentiti non diedero migliori schiarimenti».

È straordinario quel termine – ritrosia – che in altri luoghi si coniuga in modo più crudo: omertà, che in questo caso è una complicità verso chi non aveva niente perché la fame mordeva in modo pesante. E i casi si moltiplicavano. A Faenza quasi un migliaio di persone assaltarono i forni e le botteghe del pane. «Nei saccheggi non fu tolto altro che pane» annotò il procuratore generale. Erano affamati, non ladri; e presero soltanto il necessario per potersi sfamare.

Torino

Ma già all’alba dell’Unità erano emersi comportamenti simili a quelli appena descritti. Nell’autunno del 1864 a Torino ci fu una manifestazione popolare perché fu annunziata la decisione di spostare la capitale del regno a Firenze. I torinesi erano proprio infuriati. 5mila persone si riversarono in piazza Castello e in piazza San Carlo dove i regi carabinieri in assetto di guerra spararono. I morti furono 55 i feriti 133. Chi aveva ordinato di sparare e perché? Si fecero due commissioni, una del Comune e una della Camera, ma non approdarono a nulla. La strage, la prima strage nella storia d’Italia, rimase senza colpevoli.

Il 30 gennaio 1865 ci fu una clamorosa protesta dei torinesi contro la Corte. Era un giorno importante perché in programma era previsto il tradizionale primo ballo dell’anno. Ma la festa ebbe un esito imprevisto perché dalla folla, appena cominciarono a sfilare le carrozze con i nobili invitati, partì una selva di fischi e di grida di protesta senza che la Guardia nazionale facesse nulla per fermarli. Anzi, successe che avendo un ufficiale comandato ai suoi soldati di impedire alla folla di fare schiamazzi non obbedirono all’ordine e se ne stettero fermi. Molti invitati non arrivarono a palazzo Reale e molte signore, messe al corrente degli schiamazzi preferirono retarsene a casa.

La magistratura indagò per individuare e punire coloro che avevano osato oltraggiare il re. Ma ben presto sorsero dei problemi che uno sconsolato procuratore generale del re di Torino, Castellamonte, qualche giorno dopo, il 9 febbraio, evidenziò in una sconsolata relazione al ministro di Grazia e giustizia. «L’autorità giudiziaria continuerà nel suo compito, ma come ben vede il Signor Ministro, non è più questione né di energia, né di sollecitudine, né di sagacia». È questione di altra natura, ben più complessa e dai molteplici aspetti.

Scrive l’alto magistrato che «le varie classi della popolazione sono troppo interessate in questi avvenimenti, e scema quindi la fiducia di potere venire giudiziariamente in chiaro sulle persone, che presero parte alla dimostrazione, e sul modo in cui la medesima fu concertata ed eseguita». L’ipotesi su cui indagava la magistratura è che non fu un fatto spontaneo, ma ben organizzato.

«Taluni poi che presumibilmente dovrebbero essere informati danno al fatto il carattere di reato politico, e si fanno di buon conto e in cuor loro una legge di cavalleria ed anzi una religione di nulla rivelare alla giustizia». Altri, invece, «vi hanno coinvolti parenti e amici e tacciono per questo motivo, né l’autorità giudiziaria ha elementi per poterli convincere di reticenza. Taluni infine si fanno pure una convinzione che sia meglio lasciare correre, onde il processo non impedisca quella riconciliazione tra il re e la Città, che è desiderata da tutti».

L’alto magistrato torinese descriveva molto bene le varie angolature che assume il meccanismo della reticenza e dell’omertà che lui arriva a definire “una legge di cavalleria ed anzi una religione”. Le cose non cambieranno nel corso del Novecento e del nuovo secolo. In più, nei fatti di mafia, compare anche la paura, è evidente, ma ci sono tanti altri motivi che spingono a tacere. Ma sono motivi che non appartengono come caratteristica identitaria alla sola cultura meridionale.

Ed è bene avere consapevolezza di questo retroterra se vogliamo riconoscere l’omertà, o comunque la si voglia definire, anche in altre realtà al di fuori del Mezzogiorno come negli ultimi anni cominciano a stigmatizzare le forze di polizia  e i magistrati che operano al Nord.

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