A sentire Gaspare Mutolo, profondo intenditore di certe cose, le estorsioni a Palermo «vanno benissimo perché le persone sono molto educate nel pagare». Compagno di cella di Totò Riina all’Ucciardone per lungo tempo, Gasparino sulla questione ci ha ragionato sopra parecchio: «Le persone hanno quella mentalità per stare tranquilli. Quando mi dicono di qualche imprenditore o di qualche commerciante che non paga io mi stranizzo, perché non è che ci perde soltanto, a volte nasce pure un rapporto di amicizia fra quello che va a prendere la mesata e loro, insomma c’è un discorso di dare e di avere». La convenienza è reciproca, è una tassa che può rivelarsi vantaggiosa come un’assicurazione, è una polizza sulla vita che dura per tutta la vita.

A Palermo l’estorsione non si dice estorsione ma “messa a posto”. Mettersi a posto è la priorità di (quasi) tutti coloro che per esempio vogliono aprire una bottega. Ancora prima di chiedere la licenza, ancora prima di avere le carte in regola con l’assessorato comunale alle Attività produttive, chiedono inquieti agli altri negozianti del quartiere: «Con chi posso mettermi a posto?». Se nessuno si fa vivo il commerciante comincia ad agitarsi, perde il sonno, ha dubbi e brividi. E a tutti i vicini di bottega continua, ossessivamente, a ripetere sempre la stessa domanda: «Con chi posso mettermi a posto?».

Per non averlo chiesto e per non averlo fatto trent’anni fa Libero Grassi, alle sette e trenta di una mattinata di fine estate, il 29 agosto, è stato ucciso in una Palermo molto educata. Stava andando a piedi al lavoro alla Sigma, la sua fabbrica di camicie e pigiami, cento dipendenti, novanta donne e dieci uomini, un fatturato di sette miliardi di vecchie lire, una discreta esportazione all’estero. I sicari gli sono scivolati alle spalle e l’hanno spento con quattro pistolettate.

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Lo scarno resoconto dell’esecuzione che ne fa il pentito Marco Favaloro: «Prima di ammazzarlo lo pedinai per una settimana per controllare se si spostava in compagnia, se era scortato, se portava come mi avevano detto sandali alla francescana, quando fummo certi che usciva sempre da solo, Salvino Madonia decise di sparargli. Mi portò in una strada, mi indicò un portone, arrivammo con due macchine, Salvino aveva due pistole, una piatta e un’altra a tamburo, gli si avvicinò, sparò, fuggimmo».

Il geometra Anzalone

Un anno prima tale “geometra Anzalone” aveva telefonato a Libero Grassi chiedendo «un’offerta per i picciotti chiusi all’Ucciardone». La sua condanna a morte Libero l’ha firmata qualche mese dopo, esattamente il 10 gennaio 1991, con una lettera al Giornale di Sicilia. Iniziava così la lettera: «Carissimo estortore».

E continuava così: «Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. Se paghiamo 50 milioni di lire, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui».

In solitudine, Libero Grassi si è pubblicamente ribellato al pizzo ed è diventato un obiettivo “politico” e “militare” di Cosa nostra. Se fosse stato zitto magari lo avrebbero lasciato in pace, ma aveva spiattellato tutto in piazza. Non poteva passarla liscia, la mafia ci avrebbe perso la faccia. Era nato nel 1924, Libero il giorno della sua morte aveva sessantasette anni.

Ucciso dalla mafia

Domenica i suoi figli Alice e Davide saranno in via Alfieri, sul luogo dell’omicidio del padre, per “rinfrescare” con la vernice rossa il sangue lasciato su quel marciapiedi. Non hanno mai voluto una lapide, solo un cartello bianco con una scritta nera: “Il 29 agosto 1991 qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello stato”.

Una bomboletta spry per non dimenticare quella Palermo sprofondata nell’ignavia, con gli altri imprenditori che parlavano di lui come «di un mitomane», dicevano «che i panni sporchi si lavano in famiglia», giuravano «di non avere avuto mai quei problemi», invitavano gli associati a piegarsi al racket «perché se paghiamo tutti, paghiamo meno».

Il presidente del collegio dei costruttori palermitani, Nello Vadalà, dopo l’esecuzione invocò i carri armati in città contro il crimine, poi gli rubarono una gru in uno dei suoi cantieri e sguinzagliò i dipendenti a contattare il boss della zona per un’amichevole restituzione del maltolto.

Il nome mancante

Era questa la Palermo dove era cresciuto e dove lavorava un piccolo industriale al quale avevano dato il nome di Libero in onore di Giacomo Matteotti, famiglia antifascista di origini catanesi, il trasferimento a Palermo, una prima avventura imprenditoriale nel settore dei pannelli solari, poi l’apertura della Sigma. Qualche difficoltà iniziale per la vendita improvvisa del terreno dove c’era la sua fabbrica, in via Serradifalco, proprio accanto alla vetreria dei fratelli di Tommaso Buscetta.

I problemi economici ci sono anche nella nuova sede vicina alla Fiera del Mediterraneo, Libero denuncia il tasso usuraio, 22 per cento, che subisce da una banca. Arrivano in quegli stessi mesi le prime richieste dei boss. E sempre con le solite telefonate. Lo minacciano di morte, lui si rifiuta di pagare. Un giorno rapiscono Dick, il cane che è di guardia agli stabilimenti della Sigma. Glielo restituiranno in fin di vita, avvelenato, qualche settimana dopo. Un altro avvertimento è una rapina mascherata, due ragazzi provano a portare via le paghe della Sigma, alcuni operai lanciano l’allarme e li fanno arrestare.

Sino a quando entra in scena il “geometra Anzalone”. Quale altra sorte avrebbe potuto avere Libero Grassi in una città soffocata dalla paura come la Palermo alla vigilia delle stragi? Quale altro destino per un idealista come lui, uno dei fondatori insieme alla moglie Pina Maisano del Partito radicale, appassionato lettore del Mondo e dell’Espresso formato lenzuolo, un’esperienza politica nelle fila dei repubblicani di Ugo La Malfa, nemico della prima ora di Vito Ciancimino e di quegli altri pescecani del “sacco” di Palermo?

Come poteva sopravvivere nella città del “libro mastro” sequestrato ai Madonia di Resuttana, 650 commercianti e imprenditori taglieggiati dalla via Ruggiero Settimo sino alla Piana dei Colli, mezza Palermo, il primo documento mafioso ritrovato in un covo, un nome e accanto un numero, la “mesata” versata al clan, gli arretrati ancora da riscuotere, una contabilità preziosissima per le indagini dell’allora procuratore aggiunto della repubblica Giovanni Falcone. Il nome di Libero Grassi non c’era nel “libro mastro” dei Madonia, i suoi assassini.

Condannato

«Non ho pagato e non pagherò mai il pizzo ai mafiosi. Perché, da quarant’anni, faccio il mercante. E un mercante non affida ad altri la sua merce», dice a tutti. E a Samarcanda, la trasmissione di Michele Santoro, si racconta: «Non mi sento un Don Chisciotte. Non sono nemmeno un moralista né un apostolo. Voglio soltanto andare avanti per la mia strada». Qualcuno gli chiede se ha paura. Risponde: «Certo che ho paura, ma ne avevo anche prima di dire no al racket, quindi non cambia niente...».

Negli stessi giorni che Libero sfida la mafia di Palermo un magistrato di Catania fa, clamorosamente, parlare di sé. È il giudice istruttore Luigi Russo che assolve i potentissimi costruttori Costanzo, Carmelo e Pasquale, dall’accusa di favoreggiamento per avere pagato pizzo al boss Nitto Santapaola. Sentenzia: non hanno commesso alcun reato «perché hanno agito in stato di necessità».

I due volti dell’isola: Libero Grassi a Palermo che muore, il giudice Russo a Catania che scagiona uno dei cavalieri dell’Apocalisse (così il giornalista e scrittore Pippo Fava descriveva i cavalieri del lavoro che spadroneggiavano ai piedi dell’Etna) per la protezione garantita da Cosa nostra. Ma da questa parte di Sicilia è tutt’altra storia. Libero Grassi è spacciato, la mafia palermitana non può far finta di niente.

Pagano tutti

Arriva il 29 agosto, arrivano in via Alfieri Salvino Madonia e Marco Favaloro. Nel giorno dei funerali il figlio Davide porta in spalla la bara del padre e alza due dita, fa il segno della V, della vittoria. Da morto Libero Grassi marca per sempre il confine fra Palermo prima e dopo. Davide Grassi, in una recente intervista rilasciata a Salvo Palazzolo su Repubblica, ricorda quella V: «Palermo non è quella di un tempo ma c’è un passato che rischia di tornare nell’indiffrenza di tanti come allora, della politica soprattutto. Io non provo più rabbia per quei silenzi, penso che mi abbiano consentito di capire cos’è Palermo».

Cos’è Palermo? Come è cambiata? Quanto comanda ancora Cosa nostra sul territorio? Pagano sempre, pagano in tanti. A Brancaccio, in viale Strasburgo, all’Acquasanta. Dopo il libro mastro dei Madonia, tanti altri registri contabili vengono recuperati nelle basi operative delle famiglie mafiose.

Uno, formidabile per la sua completezza, per la minuziosa descrizione delle entrate e delle uscite, per la rappresentazione delle vittime, è della mafia di Palermo-centro. Un po’ Vucciria e un po’ Cala, vetrine luccicanti di ori, le porte delle gioiellerie sempre aperte, 31, incastrate fra portoni di palazzi fatiscenti e chiese sconsacrate. È la Palermo dove è vietato rubare e dove i gioiellieri non hanno mai avuto paura di rapine o di assalti. Pagavano tutti. Pagava il barbiere, l’edicolante, pagava il gelataio, il carnezziere, i salumieri, pagava la rosticceria e la panelleria. Discesa dei Maccheronai, via dei Coltellieri, piazza Fonderia. Pagavano i baristi e gli olivari, i polipari, i negozi di abbigliamento e di arredamento.

La testimonianza diretta dell’estensore del libro mastro, Davide De Marchi: «Via San Basilio negozio Bastiano Marino cassette e cd ingrosso paga; pub e il ristorante dentro il portone pagano, paga Carrieri bottonificio, panificio Spinnato paga. Via Napoli, pagano tutti indistintamente senza favoritismi e Via Borzì lo stesso e non si possono opporre rifiuti. Via Venezia, pagano l’edicolante, il ristorante, la vendita del pesce congelato, il negozio di idraulica, il supermercato accanto al bar Lucchese, il fabbro, il garage, il carnezziere Di Pari, la polleria Ferro di Cavallo, non paga B., appartenente alla famiglia dei Lo Presti e suo riciclatore.

Via Roma, pagano tutti, a partire dalla stazione ad arrivare al primo semaforo, non paga solo il bar Ciarli, considerato il bar della polizia. Rione Capo, pagano panificio Puccio, farmacia Volturno, Ganci sedie, tabacchi via Volturno non paga perché considerato da noi vicino ai carabinieri, paga il grande negozio di biancheria che fa angolo tra via Volturno e il teatro Massimo, paga la parrucchiera nella traversa, paga la casa di appuntamento di una certa Giulia».

Come funziona

Quando s’inizia l’attività c’è sempre la quota una tantum da versare, è obbligatoria. Se il commerciante è in momentanea difficoltà può pagare anche a rate, ma a Natale o a Pasqua deve saldare sempre tutto. La dispensa dalla “mesata” c’è solo in un caso: un lutto in famiglia. C’è poi chi il pizzo lo eredita, passa di padre in figlio per le vittime e per i carnefici. È capitato ai Conticello, i proprietari dell’Antica Focacceria San Francesco, un monumento di Palermo, le sue focacce con la milza e il polmone e i riccioli di caciocavallo le hanno assaggiate Francesco Crispi, Luigi Pirandello, i reali d’Italia, di Spagna e di Belgio. I Conticello fanno la “messa a posto” con gli Spadaro della Kalsa per più di una generazione, fino a quando Vincenzo si rivolta, denuncia gli emissari del racket e al processo li riconosce davanti ai giudici. Condannati tutti. Un gesto che fa scalpore in Sicilia.

Ogni epoca ha la sua mafia e il pizzo prende ogni volta forme diverse, prima si dava fuoco alle botteghe, poi è diventata di moda la colla. Ecco due estorsori che parlano qualche istante prima di un attentato incendiario, uno si chiama Ruggero Anello, l’altro non l’hanno mai identificato. Anello spiega al più inesperto compare: «Ti accendi una sigaretta e butti». Uomo: «E butto». Anello: «Ce la butti nel mezzo. Se ci butti sopra la scatola di cerini è meglio, in mezzo alla benzina viene meglio. Io ti aspetto, tu scendi da questa traversa qui, arrivi là, ci mettiamo sopra e ce ne andiamo». Uomo: «Tu ti allontani e io ci butto il cerino... boom! L’ho capito Ruggero». Anello: «Con un litro di benzina, boom... puoi accendere il mondo».

La colla

Quando dentro Cosa nostra regna Bernardo Provenzano e c’è l’ordine di fare tutto con una certa discrezione, i mafiosi escogitano un’altra maniera per avvertire le loro vittime. «Se quello non si è messo a posto, allora noi questa notte ci mettiamo la colla», sibila una voce al telefono. La colla. Il silenzio di Palermo è quella colla, la nuova arma di Cosa nostra.

L’uomo che parla al telefono si chiama Aurelio Neri, è un mafioso della Noce. Ogni mattina i commercianti della borgata alzano la saracinesca della loro bottega ma la «chiusura» è bloccata, la chiave non entra nel lucchetto. Provano un’altra volta, la chiave si spezza ma non entra. È il segnale che devi pagare. È colla, Attack, quello che sigilla il pertugio della serratura. Meglio della pistola a tamburo. Meglio della bottiglia di benzina, che quando cade a terra si sbriciola in mille cocci. Bisogna fare tutto senza rumore. A Palermo è il tempo delle estorsioni morbide, “tranquille”, di una crudeltà inafferrabile e mai rabbiosa.

Palermo che resiste

Dopo trent’anni è quasi lo stesso film di quella mattina del 29 agosto. Quasi. Perché adesso c’è qualche denuncia in più, c’è una repressione poliziesca permanente e c’è anche Addiopizzo, un’associazione che ha portato un vento nuovo, sono i “nipotini” di Libero Grassi. Ragazzi che nel 2004, quattordicesimo anniversario dell’uccisione dell’imprenditore, riempiono Palermo di manifesti con su scritto “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.

I ribelli però sono ancora troppo pochi. C’è il piccolo imprenditore del Borgo Vecchio, che affronta l’esattore mostrando un giornale con le foto di Falcone e Borsellino e gli grida «Vergogna». Ci sono i commercianti di Tommaso Natale, che preferiscono entrare in una caserma dei carabinieri piuttosto che morire affogati nei debiti. Ci sono i bengalesi dei negozietti di via Maqueda che con la loro sollevazione (e l’aiuto dei ragazzi di Addiopizzo) tracinano a giudizio gli estorsori. Non ne potevano più delle minacce e delle percosse. Segnali. Palermo che vuole cancellare il passato, Palermo che non vuole tornare indietro.

Non c’è settimana che i giornali locali non pubblichino paginate sull’ultima retata, le scorribande del racket. Ogni anno a Palermo sono circa 300 gli arresti di polizia e carabinieri per estorsione aggravata, un dato che si conferma dal 2015. L’attenzione degli apparati e della magistratura palermitana su questo fronte è alta (decisamente meno su colletti bianchi e neri), le indagini molto invasive, microspie dappertutto. Ma Cosa nostra non può rinunciare al pizzo, nemmeno dopo Libero Grassi.

L’estorsione è tutto per la mafia siciliana. Più del traffico di stupefacenti, più degli appalti, più dei piccioli. È attraverso il pizzo che Cosa nostra manifesta la sua esistenza, che impone la sua sovranità sul territorio. Anche quando le casse dell’organizzazione sono stracolme di soldi, Cosa nostra non ferma mai l’estorsione. Per non corrompere sé stessa, per non snaturarsi. E succhia sangue da quando esiste. Oggi fanno le telefonate di minaccia o chiedono «il contributo per la festa del patrono», una volta mandavano “le lettere di scrocco”.

Molte le vittime illustri anche nel passato. Come Giosuè Whitaker, rampollo della famiglia inglese del West Yorkshire sbarcata in Sicilia per produrre e commerciare vino marsala insieme agli Hopps e ai Woodhouse. O come lo stesso Ignazio Florio, padrone di Palermo «presso il quale stavano a servizio Pietro Noto nella qualità di guardiaporta e il fratello Francesco come giardiniere». Il pizzo travestito, i Noto erano i capimafia del quartiere Olivuzza. Un pentito trapanese qualche anno fa ha fatto anche un altro nome di una vittima famosa, anzi famosissima.

Prima Antonino Patti ha confessato 38 omicidi, poi ha esitato un attimo e infine quel nome al sostituto procuratore della repubblica di Palermo Massimo Russo l’ha sussurrato: «In una riunione dove partecipavano vecchi mafiosi sono venuto a conoscenza che pure Garibaldi pagò il pizzo per sbarcare a Marsala, ha dovuto versare una certa somma per attraversare la città e un altro po’ di denaro per arrivare sino a Salemi». I giudici di quattro Corti di assise hanno ritenuto Patti “assolutamente attendibile” per quei 38 omicidi, gli storici decisamente inaffidabile per quell’altro “dettaglio”.

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