Solo il nome del luogo trasporta alla Palermo di un tempo, superba e insieme miserabile. Non ci sono più neanche i “sigarettai”, i contrabbandieri che vendevano le loro stecche di Camel e di Chesterfield ai passanti ma soprattutto erano lì per fare le vedette di mafia. Il mercato di Palermo, immortalato da Renato Guttuso nel suo quadro più famoso, è diventato teatro di una movida dove probabilmente ha trovato la morte un ragazzo senza storia. Nella Vucciria di oggi, solo l’ombra di quello che era il suq più colorato e rumoroso della Sicilia, una sparatoria nella notte ha fatto pensare subito a un regolamento di conti. Un’ammazzatina, dopo un silenzio delle armi durato anni. Falso allarme. Forse non è stato nemmeno un agguato, forse solo una lite con qualcuno che a un certo punto ha tirato fuori il revolver. È l’agonia del quartiere, del suo mercato e anche del suo crimine. Così se n’è andato Emanuele Burgio, ventisei anni, assassinato «fra l’una e le due del 31 maggio 2021» in via dei Cassari, cuore del divertimento palermitano e piazza di spaccio permanente. Vendono e comprano di tutto.

Si sono venduti anche la vita di quel ragazzo nel vicolo della Vucciria che prende il nome dal francese “boucherie”, macelleria, e però a Palermo le macellerie non si chiamano macellerie ma “carnezzerie” e “vucciria” in dialetto significa soltanto confusione, confusione come quella che c’è dietro al delitto del ragazzo. Di sicuro l’hanno ucciso tre pallottole.

Di sicuro suo padre Filippo era cassiere della “famiglia” di Gianni Nicchi detto “tiramisù”, un giovanissimo capomafia che a ventotto anni era già sepolto al 41 bis. Ma le vicende del padre sembrano avere poco a che spartire con l’uccisione del figlio: droga, droga e movida. La mafia ha ben altro di cui preoccuparsi in questa stagione dove sopravvive sottotraccia, non vuole fari puntati addosso, attenzioni poliziesche, pistolettate. Quello della Vucciria è “un incidente” in una Palermo sospesa come lo era mezzo secolo fa, prima dei “giochi di fuoco” dei Corleonesi. Nei primi anni ‘70, dove la regola era come oggi non emettere suoni, alla Vucciria ci fu uno scippo che per giorni finì sulle prime pagine dei giornali locali. La vittima era Irina, una ballerina cecoslovacca. Per portarle via la borsetta, gli scippatori – non lontano dalla via dei Cassari – la sfregiarono. Un paio di settimane dopo li ritrovarono “incaprettati” in un cassonetto. Uno di loro aveva appeso un cartello al collo: “Questa è la fine di quelli che disonorano Palermo”. In mezzo a questi cinquant’anni ci sono i palazzi fatiscenti che cadono a ogni pioggia, la polvere che si alza dalle macerie e arriva sino alla terrazza dello Shanghai, l’antico ristorante che guarda piazza Caracciolo.

Sono quasi spariti gli odori e i sapori del mercato e anche le “abbanniate” grida dei polipari, degli olivari, dei venditori di semenza e di fichi d’india ghiacciati. Un po’ di celebrità il quartiere l’ha riavuta grazie a Roberta Torre che a ritmo di rap, tra via degli Argentieri e via dei Calzolai, ha girato il suo Tano da Morire. Per il resto la vita alla Vucciria scorrre con i suoi ritmi. Di notte la movida, di giorno le “messe a posto”,  le estorsioni. Da uno dei libri mastri del racket: «Panelleria paga, panificio Garella paga, tutti i fruttivendoli e i pescivendoli indistintamente pagano, tutte le gioiellerie da piazza San Domenico sino a via Meli pagano senza favoritismi tranne F.D.P riciclatore di oro rubato..».

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