Con la tomba di papa Francesco nella basilica di Santa Maria Maggiore, cambia la geografia sacra di Roma. Ma il quartiere più multietnico di Roma è l’espressione totale del suo magistero, fra indulgenza e intransigenza
«Il cimitero è triste, ci ricorda i nostri che se ne sono andati, ma in questa tristezza noi portiamo i fiori, come un segno di speranza». Era il 2 novembre 2016 e in un’omelia a braccio, papa Francesco ricordava così i defunti al cimitero di Prima Porta a Roma.
Oggi, nell’anno che il pontefice ha incardinato nel segno delle speranza, le rose bianche dei piccoli sulla sua tomba e i fiori dei pellegrini infilati nelle grate che sigillano la basilica di Santa Maria Maggiore, sono la traduzione plastica di quel discorso. Allora, per la prima volta un papa sceglieva di commemorare i morti in un cimitero della periferia romana, agli antipodi del monumentale, andreottiano Verano.
Poi nel totale dei suoi 47 viaggi apostolici, avremmo scoperto il ruolo dello spazio per Francesco, il luogo di culto delle differenze dai tempi di Buenos Aires, come ricordava lui stesso in Spera (Mondadori, 2025): «Nel barrio della mia età più verde, le differenze erano normalità, e ci si rispettava».
Ha quindi tutto un altro sapore il suo luogo di sepoltura, fuori dal Vaticano dopo oltre un secolo. Alla basilica papale dove si venerano i resti della culla di Gesù e l’icona materna della Salus Populi Romani, Francesco ha lasciato il capitolo finale del suo racconto, da scrivere a quattro mani con il popolo che abita il quartiere Esquilino. «La periferia del pensiero dell’altro ti arricchisce», soleva ripetere.
Il papa dei «senza tutto»
La tomba di papa Francesco nel quartiere più multietnico di Roma cambierà la geografia storica nella città. Per pura casualità, il primo papa latinoamericano è stato sepolto sotto il soffitto decorato con il primo oro proveniente dalle Americhe e poca distanza da Palazzo Pandolfi, storica sede dell’ambasciata di Argentina in Italia.
Ma la tomba di Francesco nel cuore pulsante e sanguinante della gentrificazione ha poco a che fare con i cenni storici, tocca le corde stesse del suo magistero. Il quartiere, almeno nelle intenzioni del suo architetto Gaetano Koch, doveva essere il tentativo, riuscito, della capitale d’Italia di presentarsi in versione sabauda, coi suoi palazzi umbertini e i viali mittleuropei a trapuntare le chiese barocche. Nato per la classe dirigente ottocentesca è poi diventato, per dirla con le parole utilizzate da Giovanni De Stefano in un articolo di qualche anno fa su Rolling Stone, «l’apparato digerente del mondo».
Il quartiere era un tempo anche presidio dell’educazione gesuitica con il prestigioso Istituto Massimo di piazza dei Cinquecento. Poi, come ha ricordato uno dei suoi ex studenti, Giancarlo Magalli, la Compagnia di Gesù sbaraccò all’Eur, con la sua urbanistica razionalista a disegnare la Terra Promessa del progresso e delle disciplina. E così, il quadrilatero di Santa Maria Maggiore, più croce che via, divenne poco a poco il luogo dell’esodo, coi cartoneros romani, al pari di quelli argentini, a ritagliarsi uno spazio in piazza Vittorio.
Il Giubileo dei dimenticati
Un melting pot dove i senzatetto vedono una processione di disperati insonni di notte e poveri cristi fatti falcidiati dal crack. «Oggi questo quartiere è popolato da persone senza una casa, derubate di tutto, senza speranza. Sono i senza tutto, diversi dai senzatetto che gravitano intorno al Vaticano o a Trastevere, presidio della Comunità di Sant’Egidio» spiega Luciano Biazzetti che, con l’associazione Chiara per i bambini nel mondo, dal 2015 cucina per i poveri di Termini.
Sono gli invisibili, i destinatari del primo viaggio di papa Francesco fuori dalle mura vaticane, quando nel 2013 ha scelto l’isola cimitero di Lampedusa e ha tuonato contro la globalizzazione dell’indifferenza. «Noi cerchiamo visibilità, ma Dio sceglie gli invisibili» aveva detto nella Messa di Natale del 2024.
Ora quei sobrantes, i superflui che non servono all’economia di mercato, sono al centro del magistero post mortem di Francesco, la sua tomba come richiamo continuo alle istituzioni responsabili di questa disgregazione urbana e umana.
Lo spiega Alice Santori, giovane volontaria dell’associazione Mama Termini, che dà supporto ai miserabili della stazione Termini organizzando cene e punti di ritrovo: «Basta dare un occhio alla piazza tirata a lucido per rendersi conto. Fra i primi lavori di riqualificazione, sono state murate le nicchie del sottopasso dove tanti trovavano rifugio».
Intorno alla piazza le transenne coi colori bianco e giallo della bandiera vaticana stringono i centinaia di senzatetto in un labirinto inospitale, costellato dalle panchine con le sbarre di ferro per impedire alle persone di sdraiarcisi: «Guarda là, c’è una tensostruttura per i bagni pubblici. Non sono mai stati aperti» le fa eco Luciano.
Di indifferenza parla Francesco Conte, reporter e autore di Termini tv, una web tv dedicata al mondo che ruota intorno alla stazione di Roma, anche lui volontario di Mama Termini. «Alle transenne temporanee, noi rispondiamo coi tavoli temporanei. I nostri tavoli sono l’unica zattera di umanità perché il problema non è il cibo, sono gli scambi fra le persone a mancare» spiega reggendo un pentolone pieno di spaghetti al sugo.
«A Termini non ci sono residenti, nessuno ti vede. E il rischio di perdere lucidità, in questo mare di disperazione è alto» spiega. In questi giorni che l’afflusso di pellegrini ha dato vita al quartiere, non nasconde lo scetticismo: «Mi piace pensare che la scelta di papa Francesco sia in parte legata anche al percepire questa chiesa come prima forma di centro che uno straniero incontra a Roma. Sarà interessante vedere come questa onda di nuovi pellegrini influirà sulla zona circostante, soprattutto dietro la chiesa, rifugio naturale di chi non ha soldi per consumare nei bar tra piazza Vittorio e Monti. Santa Maria Maggiore ha una scalinata incredibile, transennata da decenni.Queste transenne sono un facile simbolo di cosa è diventata Roma, e in particolare l’Esquilino».
Il pugno duro sugli istituti pontifici
Un paradosso per un quartiere che, malgrado il pullulare di hotel e bed and breakfast, è circondato da istituti pontifici. Fra di essi, alcuni sono stati al centro di un repulisti incisivo da parte di papa Francesco. Come l’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia, che aveva trovato la sua forma negli anni Ottanta all’interno della non distante Pontificia università lateranense, per poi essere rifondato nel 2017 da Francesco alla luce della sua esortazione apostolica Amoris Laetitia. Come ha fatto con le frange più conservatrici all’interno della chiesa, il papa ha occupato lo spazio frenando i più refrattari al concilio (fra cui il cardinale Robert Sarah, fra i porporati elettori in conclave) e rimuovendo i vertici dell’istituto già nel 2016, come monsignor Livio Melina.
Il pugno duro di Francesco non ha risparmiato neppure i suoi confratelli gesuiti. È il caso del Pontificio istituto orientale dove, all’ombra di Santa Maria Maggiore, si è consumata l’ultima battaglia del papa con la rimozione del decano, il gesuita Georges-Henry Ruyssen in pieno anno accademico, per ragioni non meglio precisate.
Stesso destino di un altro gesuita, Germano Marani, ex rettore della chiesa del vicino Collegio Russicum e vicedirettore del Centro Aletti, il centro di spiritualità diventato covo dell’ex gesuita Marko Ivan Rupnik, ritiratosi dopo la valanga di accuse di abusi spirituali e sessuali su diverse donne, incluse le consacrate. È quest’ultima la vera, insoluta macchia del pontificato di papa Francesco: l’eccessiva indulgenza mostrata verso alcune persone a lui care, poco sovrapponibili a quell’intransigenza con cui ha cercato di fare ordine nel grande ginepraio romano del cattolicesimo.
© Riproduzione riservata