Sino al pontificato di Pio IX il papa non aveva mai avvertito la necessità di superare il filtro comunicativo rappresentato dagli apparati di curia.

Durante il pontificato di Leone XIII (1878-1903) intervenne però una novità destinata, sia pure molto più tardi, a conoscere uno sviluppo importante, perché il papa decise di rilasciare, nel volgere di pochi mesi, due interviste.

Leone XIII e Benedetto XV

Papa Leone concesse dunque una prima intervista al Petit Journal nel febbraio del 1892 per chiarire che le iniziative che sarebbero state poste in essere dall’episcopato francese erano state concordate con Roma. L’iniziativa apparve in ogni caso così clamorosa da indurre l’anonimo vaticanista del Corriere della Sera a definirla un falso.

Il 4 agosto 1892 apparve invece sul quotidiano laico francese Le Figaro un’intervista a Leone XIII sul tema dell’antisemitismo: per di più concessa a una donna, che si firmava Sévérine (Caroline Rémy). La giornalista del Figaro aveva potuto sottoporre al papa le sue domande per poco più di un’ora, senza potersi appuntare all’istante le risposte; subito dopo l’incontro lo aveva ricostruito a memoria.

Anche Benedetto XV, aveva accettato di lasciarsi intervistare da Louis Latapie un mese dopo l’entrata in guerra dell’Italia: ma il giornalista de La Liberté di Parigi aveva poi contravvenuto agli accordi intercorsi con il cardinale Gasparri e si era affrettato a pubblicare tutto senza che il papa potesse rivedere il testo, facendogli commentare: «Giornalisti italiani, ma non ho mai avuto a lamentare da parte loro indiscrezione alcuna […]. Ma quei benedetti giornalisti francesi, anche cattolici, sono sempre giornalisti!».

Non è un’intervista

Trascorreranno oltre trent’anni prima che un giornalista possa avvicinare di nuovo un papa per sottoporgli le domande e a farlo sarà il giornalista per antonomasia, Indro Montanelli, un laico che avrebbe dovuto pubblicare il suo pezzo su un organo di stampa non confessionale. Avvertiva i lettori: «Quella che segue», si leggeva in apertura, «non è un’intervista col Santo Padre: il quale, ovviamente, d’interviste non può concederne. È soltanto il tentativo di abbozzarne alcune caratteristiche umane, come sono balenate ai miei occhi nella conversazione con Lui, un po’ fuori del protocollo e senza alcuna finalità giornalistica».

Anche Paolo VI si fece a sua volta intervistare, e sempre per il Corriere della Sera, ma fu con Giovanni Paolo II che si assistette a una ulteriore svolta. Già pochi mesi dopo la sua elezione, Giovanni Paolo II segnava anche una novità nella storia delle interviste papali, rispondendo brevemente ad alcune domande del giornalista Alberto Michelini, inviato del Tg1, in occasione del suo primo viaggio in Polonia del giugno 1979 e dieci anni più tardi, il 24 dicembre 1989, andò invece in onda nell’edizione serale del Tg1 una intervista di Paolo Frajese al papa rilasciata direttamente all’interno dell’appartamento papale nel Palazzo apostolico.

Ma soprattutto Giovanni Paolo II aveva normalizzato la pratica delle interviste papali iniziando a rispondere alle domande che i giornalisti accreditati presso la sala stampa della Santa sede gli ponevano nel corso dei suoi numerosi viaggi apostolici. Benedetto XVI si inserì dunque con agio in una tradizione ormai consolidata: non solo per ciò che avevano già realizzato i predecessori, ma anche perché aveva fatto ricorso più volte allo strumento dell’intervista.

Il caso Francesco

Con l’elezione a papa di Jorge Mario Bergoglio, tra i tanti elementi di rottura che i giornalisti hanno descritto, si è assistito proprio anche al più potente impiego dello strumento dell’intervista da parte di un papa in tutte le sue forme: da quella pubblicata su quotidiani o periodici, a quella televisiva per poi allargarsi – e queste sono novità – a quelle radiofoniche o quelle diffuse tramite il web.

Già prima di diventare vescovo di Roma Bergoglio era stato occasionalmente intervistato, ma si trattava in ogni caso di interventi sporadici, come quella a Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti che non a caso riferiranno al momento della pubblicazione che non era stato facile farlo accettare. «Le interviste giornalistiche non sono il mio forte», aveva anticipato.

Si può dire anzi che l’arcivescovo gesuita fosse stato decisamente più restio di altri presuli – il caso di Joseph Ratzinger è indicativo – a lasciarsi avvicinare dai giornalisti: sia per una timidezza che lo contraddistingueva, e che lo renderà un papabile poco appetibile per i cronisti in occasione del conclave del 2013, sia per la consapevolezza che le sue dichiarazioni, soprattutto in un contesto politico complesso come quello argentino, potessero essere rapidamente strumentalizzate. Non si trovava a suo agio in quel «format» e soleva dire che per capire il suo pensiero era meglio leggere i testi che scriveva.

Le esitazioni e le prudenze – o la più banale timidezza – che Bergoglio aveva mostrato come arcivescovo rispetto al farsi intervistare caddero dunque definitivamente con la sua elezione a papa. Certamente Francesco doveva, come vescovo di Roma, confrontarsi con un problema che il suo immediato predecessore non aveva: e cioè quello di essere uno sconosciuto, almeno al di fuori del collegio cardinalizio.

Per qualificarsi o illustrare il proprio programma disponeva certo degli strumenti più tipici e sperimentati del pontificato romano, come encicliche, discorsi, messaggi e omelie: ma era altresì cosciente che in una situazione comunicativa così differente rispetto al passato, sia per gli strumenti impiegabili che per la velocità che si era ormai imposta, occorreva immaginare un modo diverso di interloquire e di farlo anche per parlare a coloro che, per le ragioni più diverse, si sentivano o erano oggettivamente al di fuori della chiesa; si trattava, in definitiva, di mantenersi coerente con l’approccio pastorale seguito in Argentina e di dilatarlo ora su uno spazio più vasto. Furono quindi due gli strumenti che, molto presto, Francesco adottò per comunicare il suo pensiero: da un lato introdusse la novità delle omelie a Santa Marta; dall’altra parte le interviste, rilasciate con una frequenza che non ha pari rispetto ai predecessori.

Nel caso delle interviste di Francesco è insomma accaduto qualcosa di analogo ai viaggi papali: iniziati sì da Paolo VI – dopo il pellegrinaggio di Giovanni XXIII del 1° ottobre 1962 a Loreto e Assisi – ma che Giovanni Paolo II aveva invece privilegiato come strumento per la diffusione del proprio magistero, compiendone ben 250 nel corso dei suoi ventisette anni di pontificato.

277 interviste

Francesco ha quindi sempre inteso usare le interviste non come uno strappo alla regola della tradizionale riservatezza dei papi, che magari lasciavano intravedere eccezionalmente, ma sempre in modo sfumato, qualcosa del loro privato, ma piuttosto per presentare e ribadire la direzione pastorale che avrebbe seguito come vescovo di Roma.

Di questo se ne accorsero i giornalisti che accompagnarono il papa nel primo viaggio apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù nel luglio del 2013. Francesco li avvertì nel viaggio di andata: «Davvero io non do interviste, ma perché non so, non posso, è così. Per me è un po’ faticoso farlo, ma ringrazio questa compagnia». Tuttavia, nella sua America Latina, ne concesse in quei giorni tre: alla Rede Globo, la rete televisiva brasiliana, all’emittente Rádio Catedral dell’arcidiocesi di Rio de Janeiro e il 28 luglio proprio ai giornalisti durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro, rispondendo alle loro domande per circa un’ora e mezza.

Arriverà a farne 277 tra il 2013 e il 2025, tra cui quelle celebri a padre Antonio Spadaro, a Eugenio Scalfari e quelle a Fabio Fazio, nel 2022, nel 2024 e nel 2025, per la trasmissione televisiva Che tempo che fa, dove quella del 19 gennaio scorso rimane l’ultima concessa, un mese prima che le sue condizioni lo costringessero al ricovero.


I due autori di questo articolo sono storici del cristianesimo.

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