L’incontro fra il pontefice e il patriarca di Mosca nel 2016 arrivava in un momento già delicato. Oggi la guerra in Ucraina, la questione di una pace giusta e il dialogo con l’ortodossia preoccupano il collegio cardinalizio
Dall’inizio della sede vacante all’ingresso in conclave mercoledì 7 maggio, tutti i cardinali presenti a Roma, cioè i 133 elettori e quelli che non sono entrati in Sistina (oltre l’escluso Angelo Becciu, gli ultraottantenni), hanno preso parte a 12 riunioni, le congregazioni generali, per oltre 30 ore complessive: oltre 260 interventi sulle più svariate materie di diversa rilevanza. Si è così formato, accanto ai temi dell’evangelizzazione e della missione arricchite da quelli della sinodalità, un vero cahier de doléances affrontato – per la prima volta in 12 anni – dall’intero collegio cardinalizio: un lungo incontro unico.
Nei giorni che hanno preceduto l’extra omnes, in un susseguirsi vorticoso, gli oratori si sono presi la scena. Ma in simultanea, con discrezione, hanno molto lavorato aggregatori di informazioni e di opinioni per delineare il profilo del nuovo papa, inclusa la scelta del nome che prenderà. Significativo il passaggio del comunicato vaticano sull’undicesima riunione di lunedì pomeriggio: «È stato ribadito l’impegno e la responsabilità dei cardinali nel sostenere il nuovo papa, chiamato a essere un vero pastore, una guida che sappia andare oltre i confini della sola chiesa cattolica, promuovendo il dialogo e la costruzione di rapporti con altri mondi religiosi e culturali».
Il dialogo con gli ortodossi
Fra gli argomenti riproposti numerose volte nelle congregazioni cardinalizie è stato evocato il viaggio di papa Francesco a Cuba, dove all’aeroporto internazionale dell’Avana il 12 febbraio 2016 il pontefice aveva abbracciato il patriarca Kirill di Mosca. L’evento, storico, era contestuale alla firma di una dichiarazione comune dopo 962 anni dal giorno in cui le chiese d’Oriente e Occidente si erano scomunicate tra loro.
Il Vaticano era interessato a sottolineare l’abbraccio, in uno scenario organizzato in modo brillante dal presidente cubano, Raúl Castro. Da parte sua, il patriarca moscovita, insieme all’abbraccio, insisteva sul testo dei trenta punti del documento congiunto.
Sulla stampa di allora l’evento era presentato con ottiche diverse: una, molto televisiva, era più centrata sulla riconciliazione tra i due capi religiosi, poi fortemente distanti; l’altra più focalizzata sulla dichiarazione comune tra cattolici e ortodossi. Il patriarcato di Mosca enfatizzava da parte sua il fatto che l’inizio di questa possibile riconciliazione avveniva fuori dall’Europa, condicio sine qua non posta da Kirill.
Il complesso mondo ortodosso ha commentato questo storico incontro con analisi solide e critiche. Nel mondo cattolico vi sono state divergenze e prese di distanza. Fra le più vivaci e addolorate, quelle della chiesa greco-cattolica ucraina, di altre chiese, di settori e ambienti politici, culturali ed economici dell’Ucraina. Il momento per l’Europa, e naturalmente per l’Ucraina, era delicatissimo: erano passati due anni dalla rivoluzione di Maidan e dall’invasione e annessione russa della Crimea voluta da Vladimir Putin.
L’equivicinanza
In volo rientrando dal Messico, paese visitato dopo la sosta all’Avana, il 17 febbraio 2016 papa Francesco aveva ricordato alcune frasi di Svjatoslav Ševčuk, arcivescovo maggiore di Kyiv, che aveva tra l’altro detto in un’intervista: «Tanti fedeli mi hanno chiamato o scritto dicendo che si sentono profondamente delusi e traditi da Roma». Poi, però, il pontefice, con riferimento ai paragrafi specifici sull’Ucraina (il 25 e il 26), aveva provato ad abbassare gli spunti polemici accettando le divergenze che da tempo, prima della firma della dichiarazione congiunta con Kirill, l’arcivescovo Ševčuk gli aveva comunicato per scritto.
Parlando sull’aereo, papa Bergoglio aveva fatto una precisazione che oggi, a oltre tre anni dall’invasione russa dell’Ucraina, potrebbe essere letta con una griglia che rende ancora più inspiegabile la posizione presa dal pontefice sessanta ore dopo l’inizio dell’invasione di Mosca. Così diceva nel 2016 il papa: «A me non dispiace il documento, così; non dispiace nel senso che dobbiamo rispettare le cose che ognuno ha la libertà di pensare e in quella situazione tanto difficile».
Dopo aver ricordato gli aiuti umanitari inviati dal Vaticano fino al Donbass il papa aveva aggiunto: Roma vuole «cercare sempre la pace, gli accordi; si rispetti l’accordo di Minsk. Questo è l’insieme. Ma non bisogna spaventarsi per quella frase (di Ševčuk): questa è una lezione, che una notizia la si deve interpretare con l’ermeneutica del tutto, non della parte».
Erano riflessioni che anticipavano la visione di papa Bergoglio, tuttora indecifrabile. Era la cosiddetta equivicinanza, definita nelle riunioni preparatorie del conclave come «il voler comprendere il dolore del figlio aggredito e al tempo stesso spiegarsi la condotta del figlio aggressore. Quanto sia stata giusta questa visione – si è aggiunto – lo dirà la storia ma tutto dice che è stata un grave errore» di papa Francesco.
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