Fra i segreti più custoditi in Vaticano c’è quello dei perversi misfatti sessuali dell’ex gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik, famoso e ricco mosaicista, oggi sotto processo canonico – il secondo dopo il primo del 2020 – e che probabilmente finirà con la sua dimissione dallo stato clericale. Tra le molte protezioni di cui il religioso ha goduto durante il pontificato di Bergoglio c’è quella del papa in persona. Proprio grazie a questa, nel maggio del 2020, a Rupnik è stata tolta la scomunica inflittagli per avere assolto in confessione una sua «complice», reato gravissimo nella chiesa cattolica.

Dopo ulteriori indagini i gesuiti hanno deciso di espellerlo dall’ordine. Rupnik è però rimasto prete, accolto nella diocesi di Koper (Capodistria), ma non di rado in Italia a Montefiolo (Rieti), luogo di riferimento nella formazione di una nuova comunità religiosa.

L’omertà 

Da almeno trent’anni è noto che padre Rupnik, autore di oltre duecento mosaici in chiese e santuari in diversi paesi del mondo, ha perpetrato abusi sessuali su una ventina di donne consacrate. Approfittando di debolezze, bisogni spirituali e ingenuità, nel contesto di comunità religiose dove il fondatore spesso diventa padre e padrone, un padreterno.

Non solo. Ha potuto, come in altri casi simili, godere di coperture e omertà. Fra abusi seriali, a volte legati al momento stesso in cui si allestivano i grandi mosaici, fama, denaro e accesso alle stanze del potere, Rupnik è riuscito a mettere a punto un dispositivo che gli ha procurato ingenti risorse e potenti committenti (tra cui alcuni papabili) per l’esercizio del suo «erotismo mistico» e della sua «sessualità trinitaria».

Nella gestione di questo scandalo papa Francesco nel 2023 ha deciso di derogare alle prescrizioni per permettere che Rupnik fosse processato per gli abusi sessuali, di potere e di coscienza, trascurati nel primo processo.

La remissione della scomunica, permessa dal papa in persona, è stato uno degli errori più grandi di Francesco, e difficilmente la prossima condanna nel secondo processo cancellerà questa macchia che il papa avrebbe potuto evitare dicendo apertamente: «Mi sono sbagliato, chiedo perdono, soprattutto alle vittime».

Parole e fatti 

La vicenda Rupnik e altre simili, avvenute negli anni di Bergoglio, si sarebbero risolte e chiarite in modo soddisfacente se il pontefice argentino avesse applicato all’interno della chiesa la necessità di «parresia» (franchezza, libertà di parola), da lui più volte dichiarata.

Dopo la morte del papa, il generale dei gesuiti Arturo Sosa, in merito al caso Rupnik ha detto che il pontefice «ha riconosciuto i suoi limiti, anche la sua lentezza in alcuni casi, i suoi errori. Cercheremo di superarli, e il tema non è se dobbiamo dargli una medaglia, ma imparare dalle critiche e dagli errori. Nel caso degli abusi penso che la chiesa oggi non sia allo stesso punto in cui era all’inizio del suo pontificato, è avanzata». Sacrosante le parole di padre Sosa, soprattutto se si pensa alle tante e coraggiose prese di posizione del papa di fronte agli abusi tra i membri del clero: di potere, di coscienza e sessuale.

Giovanni Paolo II affrontò sommariamente la questione degli abusi, già vecchio e malato, disattento verso le vittime e molto angosciato per il danno d’immagine alla chiesa. Lo fece parlando con due gruppi di cardinali statunitensi.

Joseph Ratzinger come prefetto dell’antico Sant’Uffizio si era battuto per poter condurre le indagini nell’organismo che guidava – si trattava infatti di crimini contro la persona e di delitti contro la fede – perché questi venivano insabbiati nella Congregazione per clero.

Affrontò con fermezza il caso Maciel ma riuscì a chiuderlo solo dopo essere stato eletto papa, mente il fondatore dei legionari di Cristo moriva sereno nel suo letto, lasciando dietro di lui migliaia di vittime.

Papa Bergoglio ha impresso una svolta decisa e radicale, estendendo la lotta dopo la costituzione di una Commissione pontificia per tutela dei minori. Mette al centro le vittime, e tra i colpevoli non fa distinzioni tra preti, vescovi o cardinali. Le norme disciplinari, le regole operative, la lentezza dei processi e i risarcimenti voluti da Francesco non sono però stati all’altezza dei proclami.

Per di più il papa è morto senza aver risolto il caso Rupnik. Confermando la contraddizione del pontificato di Francesco dove i grandi annunci sono stati seguiti da pochi fatti. Benché il papa ripetesse che era necessario predicare il Vangelo proprio con fatti, e se necessario con le parole. 

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