Come la maggior parte delle barzellette più brutte della storia, anche questa storia comincia con un italiano, un francese e un tedesco. A dire il vero c’è anche un portoghese, da cui forse sarebbe opportuno partire per raccontare uno dei più curiosi fenomeni di colonialismo gastronomico dei nostri tempi: la conquista dell’oriente da parte dei dolci europei.

Dan tat e cheesecake

La cheesecake giapponese (Wikipedia)

La prima volta che ho varcato la soglia di una panetteria cinese in una traversa di via Paolo Sarpi, cuore della Chinatown milanese, non sapevo nulla di tutto ciò. Fui dunque molto sorpreso di trovare, in una vetrinetta nel posto d’onore di fianco alla cassa, qualche dozzina di pasteis de nata che davano bella mostra di sé al calduccio. «Perché vendete dolci portoghesi», chiesi al commesso. «No portoghesi, cinesi, si chiamano dan tat», mi fu risposto. Eppure somigliavano troppo, la sfoglia friabile, la crema all’uovo leggermente abbrustolita, e la presenza di latte nella farcitura tradiva una necessaria origine europea: non esistono dolci autoctoni a base di latte vaccino in Cina, se non altro almeno perché la quasi totalità della popolazione è intollerante al lattosio.

Documentandomi brevemente, ho presto scoperto che i pasteis de nata raggiunsero la Cina in qualche momento imprecisato del ventesimo secolo, forse dal porto di Guangzhou, oppure dai portoghesi di Macau, e che in ben poco tempo attecchirono, incontrando il gusto della clientela ibrida di quei luoghi, fino a diventare una vera e propria specialità nazionale. Ho mangiato dan tat a Shanghai, a Pechino, tra le strade medievali di Pingyao e in riva al fiume che taglia in due la pittoresca città di Fenghuang: praticamente, ovunque sia stato in Cina.

Come ovunque, in Giappone, ci si imbatte in piccoli chioschi pieni di soffici cheesecake di varie dimensioni. Come quelle cose che guardi ma non vedi, la loro presenza nei sottopassaggi della metropolitana di Tokyo, o tra un negozio e l’altro nel quartiere di Shinjuku, non aveva suscitato in me la minima curiosità. Ero troppo preso da sushi, ramen, polpette di polpo e cotolette di maiale per prestare fisicamente il fianco a un dolce, per di più americano. In realtà, come avrei scoperto sempre dopo, la cheesecake giapponese è davvero giapponese. Di come ciò sia accaduto abbiamo solo qualche indizio.

na cosa certa è che, nel 1969, il titolare della prestigiosa pasticceria Morozoff di Kobe rimase folgorato, in occasione di un viaggio a Berlino, da una cheesecake particolarmente gustosa, realizzata (diversamente da ciò che di solito accade in Germania, dove il dolce viene preparato con il quark, una sorta di ricottina acida) con del formaggio spalmabile. Tutt’oggi il signor Tomotaro Kuzuno, questo il suo nome, viene accreditato come l’inventore della cotton cheesecake giapponese, anche se il dolce diventato nel frattempo celebre in tutto il paese non ha troppi punti in comune con la versione prodotta dalla Morozoff: ricorda piuttosto una soffice nuvola di fittissimo pan di Spagna al sapore tenue di formaggio e non troppo dolce. Come spesso accade nella storia della gastronomia, non ci è dato sapere quali siano i fattori che portino un piatto a cambiare nel tempo, ma resta il fatto che uno dei dolci più amati del paese del Sol Levante parli un accento tedesco.

Crêpes e maritozzi

In Giappone, però, anche il francese e l’italiano hanno il loro fascino. Non potrebbe esser che francese l’idea di realizzare giganti torte colorate sovrapponendo innumerevoli crêpes e “stuccandole” con crema pasticciera o panna. Questa è l’idea dietro alla torta millecrepes, da leggere alla francese come millefeuilles, che venne in mente a una pasticceria di Tokyo sempre durante un viaggio, stavolta in Francia.

Oggi la piccola pasticceria Paper Moon è diventata Lady M, un colosso con punti vendita in tutto il mondo, i colori della millecrepes si sono moltiplicati e la torta, oltrepassati i confini nazionali, è diventata un classico della pasticceria contemporanea anche nei paesi limitrofi, in Cina come in Corea.

E forse succederà la stessa cosa al maritozzo, la next big thing della pasticceria euro-asiatica, diventato un must in Giappone tanto da meritare un lemma nel celebre vocabolario Sanseido Kokugo. La storia del suo successo, più recente ma non meno fulgido, va ricercata forse nella fortuna di un programma giapponese girato nel 2017 a Roma, che mostrò per la prima volta ai nipponici le meraviglie della vetrina della pasticceria capitolina Romoli. Alle storie di viaggi, di casi e d’invenzioni possiamo credere o meno, e io tendenzialmente propendo sempre per il meno.

Al netto del passato, però, il presente della pasticceria orientale è un variopinto, strabordante, opulento bancone di dolci di origine occidentale. In via Paolo Sarpi, là dove scoprii la (poca) differenza tra un pasteis de nata e un dan tat, se ne può avere tutti i giorni la prova commestibile.

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