Nella valle d’Ansanto, dove Virgilio aveva identificato una delle porte dell’inferno, si produce il pecorino di Carmasciano. L’erba che sa di zolfo fa la differenza nel suo sapore. Ma i produttori si dividono sulla scelta o meno di dare anche mangime alle greggi
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Anche l’erba che sa di zolfo può fare la differenza. Lo sanno bene i produttori del pecorino di Carmasciano della Valle d’Ansanto, territorio nel cuore dell’Alta Irpinia descritto anche da Virgilio nell’Eneide, che lo riteneva una delle porte degli Inferi. «Ha quinci e quindi oscure selve, e tra le selve un fiume che per gran sassi rumoreggia e cade, e sì rode le ripe e le scoscende, che fa spelonca orribile e vorago, onde spira Acheronte, e Dite esala», scriveva il poeta e il riferimento è alla Mefite di Rocca San Felice, un lago di origine sulfurea che caratterizza con le tipiche esalazioni le aree verdi dei comuni della zona, quali Sant’Angelo de’ Lombardi, Rocca San Felice, Guardia de’ Lombardi e Frigento in provincia di Avellino.
«Le esalazioni sulfuree danno al pecorino di Carmasciano un’altissima riconoscibilità: quel tipico gusto di frutta secca e fiammifero, che si sente soprattutto quando il prodotto è stagionato, è unico», evidenzia il presidente di Slow Food Campania Angelo Lo Conte, che ha seguito direttamente la nascita del presidio nel 2019.
A seguire il disciplinare, che prevede alcuni specifici dettami, sono oggi sei produttori della zona. «Le regole del presidio sono piuttosto precise: la produzione si deve basare sul latte di due razze di pecore del territorio, la laticauda e la bagnolese; è vietata la transumanza e, infine, i capi devono stare al pascolo nella zona della Mefite», evidenzia Anna Maria Rosamilia dell'Azienda Agricola La Verga di Antonio Nigro di Rocca San Felice, che produce il pecorino di Carmasciano, e delegata del presidio Slow Food.
Il pecorino
La produzione non è mutata nel tempo ed è rimasta molto simile a come era in passato. Oggi quasi tutti i produttori utilizzano strumenti in acciaio ma è possibile usare anche il caccavo, la caldaia di rame, utilizzata soprattutto in passato, con speciali deroghe da parte dell’Asl.
«Io preferisco non usarlo perché temo che ad alte temperature si possano liberare ioni di piombo o stagno nel formaggio, specie se la stagnatura del caccavo non è fatta a dovere», racconta Rosamilia. Lo stesso vale anche per Giuseppe Moscillo, produttore del pecorino di Carmasciano e titolare dell’azienda agricola D’Apolito di Sant’Angelo dei Lombardi, che però non rientra nel presidio Slow Food.
«Ci sono attrezzature un po’ più moderne, ma i princìpi restano gli stessi del passato: prendiamo il latte di due munte, mattina e sera; lo riscaldiamo a 38°C; aggiungiamo il caglio di vitello e poi ci sono le fasi di rottura, pressatura a mano e stufatura in una vasca con vapore caldo. A seguire ci sono poi la salatura e la stagionatura, che può genericamente arrivare fino a 12 mesi», dichiara. La differenza tra i due produttori è legata sia alla razza di pecore allevate, dove sono presenti anche le Lacaune, che all’alimentazione.
«Anche le nostre vanno al pascolo, quando il meteo lo consente, ma la loro alimentazione è molto controllata anche quando sono nella stalla: la loro razione giornaliera prevede prodotti del territorio come foraggio, orzo e avena con l’aggiunta di un po’ di mais. I pascoli sono poveri quindi, per il benessere d’animale, integriamo il 10/15 per cento della loro alimentazione con questi prodotti», sottolinea Moscillo.
Storia diversa, invece, per chi rientra nel presidio Slow Food. «Le nostre pecore, che sono tutte Laticauda, pascolano quasi tutto l’anno: per saziarle prima le portiamo nel fieno seminato, un fieno polifita dove c’è sia la sulla che l’erba medica, e poi, dopo qualche oretta, le portiamo sui prati stabili dove possono brucare le loro erbe spontanee preferite, come il timo selvaggio. Stando a circa 100 metri dalla zona mefitica, le esalazioni arrivano anche nelle nostre aree verdi», evidenzia Rosamilia. Il prodotto finale si lega quindi a doppio filo al territorio di produzione e diventa così un vero e proprio simbolo dell’Irpinia, che però i consumatori non potranno mai trovare al supermercato.
La difficoltà di produzione
L’essere legato al territorio della Mefite rende il pecorino di Carmasciano un prodotto naturale non facilmente gestibile per un supermercato.
«La nostra è una produzione limitata ma il prodotto deve essere anche “capito”: abbiamo prezzi che vanno dai 30 euro in su. Per questo molti distributori e anche ristoratori ci pensano quando valutano il prodotto. Abbiamo però una nostra clientela affezionata che compra il formaggio anche un anno prima, sapendo che non c’è una disponibilità illimitata. Abbiamo dovuto dire tanti no, ma la scarsa quantità di produzione e l’aspetto naturale del prodotto rendono il Carmasciano non sempre accettabile per la grande distribuzione, visto che il pecorino si può deformare, spaccare o avere un po’ di muffa vicino alla crosta. È un prodotto tradizionale, che va trattato come si faceva 50 o 100 anni fa: questo ti impedisce di usare celle frigorifere, non permesse da Slow Food, e di pastorizzare il prodotto», sottolinea Rosamilia.
Ma si potrebbe aumentare la produzione di pecorino? Integrare l’alimentazione con altri prodotti cambierebbe poco il risultato, «ma aumentare il numero delle pecore certamente, anche se significa costi maggiori. Credo che manchi l’offerta, perché la domanda c’è: ad oggi ci sono periodi in cui non ho formaggio, nonostante abbia aumentato il numero dei capi e non abbia cambiato la filosofia dell’azienda che prevede l’utilizzo di prodotti naturali e il non stressare l’animale», sottolinea Moscillo.
Secondo il titolare dell’azienda agricola D’Apolito, «ad oggi il pecorino resta ancora un prodotto delle singole aziende, poco del territorio. Ogni produttore cerca di fare il meglio possibile ma c’è poco dialogo tra chi lo produce. Senza un ricambio generazionale, ho paura che tutto possa scomparire: non credo che ci saranno mai aziende che avranno voglia di investire in un territorio difficile e antieconomico come il nostro».
Non mancano però anche le notizie positive. «Il Presidio ha aiutato tanto, sia nel periodo pandemico che post-pandemico, e oggi le vendite dei nostri sei produttori è aumentata, tant’è che spesso non si trova prodotto sufficientemente stagionato. Oggi ci sono due progetti in corso, che porteranno a due nuovi alleva
menti con caseifici aziendali: un allargamento possibile visto che il prezzo permette un’adeguata remunerazione», sottolinea il presidente di Slow Food Campania Lo Conte, che rimarca come l’aumento del numero dei capi di ciascuna azienda dipenda anche dagli ettari di pascolo a disposizione. Un altro futuro forse è possibile.
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