Silvia Sciorrilli Borrelli, corrispondente da Milano del Financial Times, ha scritto per Solferino il saggio L’età del cambiamento – Come ridiventare un paese per giovani (in uscita l’8 giugno). In questo articolo ne anticipa la tesi. 


La discussione pubblica sul lavoro giovanile ha i connotati del tifo sportivo. Con l’avvicinarsi dell’estate riparte anche il ritornello di alcuni imprenditori: «I ragazzi non hanno più voglia di faticare e preferiscono restare a casa col reddito di cittadinanza».

I detrattori del sussidio simbolo dei Cinque stelle vanno in brodo di giuggiole, i politici degli altri schieramenti cavalcano l’onda. Ma nessuno spiega mai quanto offrono gli imprenditori ai ragazzi che rifiutano il lavoro, né come mai i ruoli scartati dai “giovani sfaticati” non vengano ricoperti da chi è più avanti con gli anni e disoccupato.

Se davvero un sussidio – in media 452 euro a persona, secondo gli ultimi dati Inps – funge da deterrente al lavoro regolare, significa che il problema riguarda soprattutto i salari.

Secondo i dati Osce, l’Italia è l’unica nazione europea dove i salari sono diminuiti di quasi il 3 per cento rispetto al 1990: in Germania sono cresciuti del 33.7 per cento, in Francia del 31.1 per cento, in Grecia del 30,5 per cento e in Lituania, addirittura, del 276 per cento.

La flessibilità non è sempre stata usata per rendere più dinamiche e competitive realtà ingessate e corporative, bensì per precarizzare l’offerta e legalizzare lo sfruttamento.

Il fiorire di tirocini non retribuiti nei supermercati o alle pompe di benzina, così come gli annunci pubblicati online in cui si richiedono figure esperte per svolgere mansioni complesse a tempo pieno a fronte di meri rimborsi spese, ne sono esempi lampanti.

Un primo passo potrebbe essere quello di vietare per legge i tirocini extracurricolari non retribuiti.

C’è anche la piaga del lavoro nero che riguarda oltre tre milioni di persone e che, secondo Confartigianato vale oltre 11 per cento del Pil, su cui i politici conducono battaglie molto meno rumorose.

Il cambio di mentalità 

Dopo quasi un decennio di crisi economiche di varia natura esistono casi di oggettiva difficoltà degli imprenditori. Va quindi affrontato il tema del costo del lavoro, ma senza un cambio di mentalità, che include l’abbandono della difesa a spada tratta dei numerosi interessi particolari, sarà difficile invertire il declino del paese.

Si deve usare l’opportunità del Pnrr per riformare le politiche attive del lavoro nel profondo; introdurre meccanismi di controllo per vietare l’uso distorto di forme di lavoro flessibili o finalizzate alla formazione dei giovani lavoratori; favorire misure che aumentino la produttività; mettere un argine al lavoro nero e smettere di distribuire soldi a pioggia.

In questo quadro, anche riforme come quella sul salario minimo andrebbero a beneficio di tutti e anche la contrattazione collettiva potrebbe uscirne rafforzata, come accaduto in Germania. Ma la strada è ancora lunga.

I giovani devono rivendicare un ruolo centrale nella società e come interlocutori della classe politica.

Non bastano gli slogan e le proposte acchiappavoti, occorrono risposte strutturali, riforme, infrastrutture che offrano a chi si affaccia a un mondo del lavoro in forte evoluzione opportunità effettive di realizzazione, anche in un quadro di maggiore flessibilità e di migliore bilanciamento tra vita privata e lavorativa (uno studio di Deloitte dimostra che a chiederlo sono il 67 per cento dei giovani nati dopo il 1996 ed il 63 per cento dei nati tra il 1980 ed il 1995).

Quando si citano i paesi scandinavi per dire che è la stessa Unione europea a non voler forzare l’introduzione di un salario minimo legale a scapito della contrattazione collettiva, ci si dovrebbe riferire anche alle leggi sul lavoro scandinave, i congedi parentali condivisi, i bassi livelli di evasione fiscale a fronte di un’alta imposizione fiscale sui redditi necessaria a finanziare il welfare (non inteso principalmente come spesa pensionistica), e il ruolo centrale dei giovani all’interno della società.

Durante una sua visita ufficiale a Roma, l’Italia intera si è innamorata della trentaseienne premier finlandese Sanna Marin, a capo del governo della sua nazione dal 2019 e cioè da quando la sua bambina aveva due anni.

Apriamo allora una discussione su tutte quelle giovani italiane a cui viene ancora chiesto nel colloquio di lavoro se hanno intenzione di mettere su famiglia o che non vengono assunte in quanto donne; o quelle che al lavoro rinunciano perché non hanno accesso agli asili nido; oppure ancora quelle coppie di precari che i figli o un mutuo non se li possono permettere; o, peggio, quei trentenni che non possono lasciare la casa dei genitori perché disoccupati.

Senza voler difendere i giovani sfaticati e goderecci che pure esistono (e sono esistiti in ogni generazione), o negare che sia urgente l’abbattimento della pressione fiscale anche per aumentare i salari, va riconosciuto che i veri vulnus del mercato del lavoro in Italia non sono solo economici ma anche o, forse, soprattutto culturali. Altrimenti ogni riforma rischia di essere inutile.  

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