Jannik e lo spagnolo saranno avversari per la prima volta in una finale Slam sulla terra rossa del Roland-Garros, dove l’anno scorso si sfidarono in semifinale. Facile prevedere che anche stavolta si risolverà in un prolungato sfinimento reciproco: a decidere potrebbe essere un quasi impercettibile anticipo nel colpire. I due sono simili ma restano distanti nella gestione delle ore che trascorrono lontano dal campo da tennis: una differenza che alla lunga può fare la fortuna di entrambi
Sarà anche un italiano riluttante, ma di certo le prova tutte per farsi amare dagli altri. Non si può dire che non ci sia riuscito. Concluso il match contro Djokovic, cerca la ragazzina a cui regalare polsini e asciugamano. Durante: prende in contropiede il serbo sul piede di guerra per una chiamata dubbia andandogli incontro e spiegando, come se fosse LUI il giudice di sedia, che i segni sono due e Nole sta indicando quello sbagliato. Più che un italiano riluttante forse bisognerebbe scomodare Graham Greene e pensare a Jannik Sinner come a un tennista (invece di un americano) quieto: il perfetto incarnatore di un diffuso desiderio di peace and love più che di vittoria.
Questo novello emulo di Sai Baba è in procinto di disputare la sua terza finale Slam consecutiva: stavolta al Roland-Garros contro Alcaraz che sulla terra ha battuto una volta soltanto, a Umago nel lontano 2022. L’anno scorso a Parigi i due si affrontarono in una semifinale-monstre vinta da Carlos dopo cinque set di scannamenti. La terra rappresenta per il grande pacificatore di San Candido davvero una promessa: una volta abbattuto quel tabù (i vari cementi sono casa sua, con l’erba non si sono detestati sin dall’inizio ed è già un’ottima cosa) la strada verso quel grande obbiettivo che è il Grande Slam (traguardo Voldemort: sarebbe meglio non nominarlo mai) potrebbe improvvisamente spalancarsi.
Il confronto
Non sarà facile però e si tratta tutt’altro che di un’ovvietà. Nonostante il Sinner visto a Parigi sia un’evoluzione di quello osservato nella finale di Roma, quando Alcaraz ebbe forza e mezzi per schiacciare l’azzurro rientrante dopo la squalifica (di cui oggi nessuno serba quasi più memoria) il timing del murciano nel colpire la palla appare ancora di un qualcosa superiore a quello del nostro. Ci impiega meno a decidere quando cambiare altezza e pressione della palla, quando uscire dallo scambio con una palla corta o quando scendere a rete, attività che fino a nemmeno tanto tempo fa pareva compatibile con il gioco su terra quanto Trump e Musk in queste ore (domani chissà).
Facile prevedere che anche nella finale parigina il match si risolverà in un prolungato scannamento reciproco: ma a decidere potrebbe essere un quasi impercettibile anticipo nel colpire. Dettagli nella cui cura the quiet-tennis-player è maestro. E pensate che domenica storica potrebbe diventare, con Errani-Paolini pronte a conquistare il titolo nel doppio femminile (finale contro Danilina/Krunic alle 11). Una ventata di sorriso su un paese diviso. Considerazione da quattro soldi ma la rima è bella.
Intanto se Novak Djokovic ha appena firmato un accordo con Netflix per un film sulla sua vita (13.5 milioni di dollari il cachet) c’è da domandarsi fin dove potrà spingersi il business a cui i due i finalisti di Parigi stanno dando vita. Carlos ha bruciato i tempi: il docufilm a lui dedicato è già disponibile da settimane ma per mancanza, diciamo così, di polpa (quanta storia si può avere da raccontare a 23 anni?) ha fatto parlare di sé soprattutto per le dichiarazioni di Carlos Moya, che qualcuno vorrebbe nel team Sinner il prossimo anno al posto di Darren Cahill: ha ricordato che non si può ambire a diventare il numero 1 al mondo e restare sul trono se si torna a casa alle sette del mattino dopo aver fatto nottata.
Nella gestione di quelle notti sta proprio la differenza di personalità su cui Alcaraz e Sinner stanno costruendo la loro dualità e il loro business. La diversità è necessaria per creare una storia. Erano diversi McEnroe e Borg, Agassi e Sampras, la Navratilova e la Evert, la Graf e la Seles, Nadal e Federer. Sinner e Alcaraz hanno proprio nella gestione delle ore che trascorrono lontano dal campo da tennis quella differenza che, alla lunga, può costruire una storia comune.
Non che uno sia un George Best in prospettiva e l’altro un monaco tibetano intento a scandire il tempo suo e del mondo percuotendo una campana. Ma se da un lato tracce del Sinner “mondano” si possono trovare sono negli scatti rubati durante la vacanzella con Anna Kalinskaya in Sardegna o a San Siro per il Milan, quella di Alcaraz è nascosta dalla nebbiolina.
Non è il caso di ricamarci sopra più di tanto. Sempre di ragazzi di poco più di vent’anni stiamo parlando anche se già vecchiotti in confronto al diciassettenne Lamine Yamal. Uno scende in campo con Vagnozzi un’ora dopo aver giocato un match di torneo per correggere quel dritto che in partita aveva poco funzionato (Jannik) e l’altro invece si attacca alla consolle per videogiochi (Carlos). Ma in fondo il tennis spera che queste differenze crescano invece di annullarsi. Lo richiede il business. Non solo il loro, ma pure quello di tutti gli altri.
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