Dei tanti acronimi che entrano oggi nelle nostre cucine, Wfbno è uno fra i più recenti – e probabilmente quello che provoca le reazioni di maggior sorpresa. Le sei lettere che lo compongono stanno per Whole Food Plant Based No Oil, ovvero, una dieta composta di cibi il più possibile interi (o nel caso dei cereali, integrali) a base di piante (quindi frutta, verdure, cereali, semi, tuberi, eccetera), e priva di grassi processati, o olii.

Incluso olii solitamente considerati come il pinnacolo della salute, quali l’olio extra vergine di oliva, che viene invece accantonato come nutrizionalmente troppo calorico e innecessario. È una teoria dietetica che, in posti in cui l’olio di oliva assume tratti identitari, come l’Italia, ha una strada tutta in salita – ma cerchiamo di vederne prima i possibili vantaggi, a livello salutare, creativo e ambientale, e di capire meglio a cosa corrisponde Wfbno.

L’olio come spremitura

È un tipo di alimentazione che si è sviluppata a partire dalla scelta vegana, ma la estende ulteriormente eliminando dal piatto tutti quei prodotti altamente processati, anche se a base di piante, come possono essere i vari hamburger o nuggets vegetali, o altri piatti pronti vegani che si trovano ormai con crescente frequenza nei nostri supermercati. Wfbno sceglie cereali integrali e non “bianchi” o raffinati, ma, cosa maggiormente inusuale, elimina anche gli olii, seguendo la logica questi sono il prodotto di una spremitura di parte di una pianta, che ne elimina una percentuale significativa.

Gli oli d’oliva, dunque, come quelli di semi o di cocco, vengono evitati perché sono stati ottenuti scartando le parti fibrose e i nutrienti in esse contenuti, e rompendo l’armonia interna ad una pianta – considerata da diversi nutrizionisti come capace di dare il meglio nutrizionale solo se consumata il più possibile nella sua interezza. I grassi, indispensabili al sano funzionamento del corpo umano, vengono consumati in forma di avocado o tahini – la crema altamente oleosa che si ottiene macinando l’interezza dei semi di sesamo – o altri burri di semi, mandorle, noci, nocciole e noccioline: a patto però che venga utilizzato tutto il seme, senza lasciare fuori sbucciature o avanzi.

L’idea di nutrirsi di piante intere (con il solo acronimo Wfbn) è stata inizialmente sostenuta e pubblicizzata dal biochimico nutrizionista americano T. Colin Campbell, fondatore del Center for Nutrition Studies di New York e uno dei ricercatori dietro al China Study, portato avanti negli anni Ottanta, una delle ricerche più approfondite ad aver dimostrato la relazione fra una dieta vegana e un minor tasso di incidenza di malattie del sistema cardiovascolare, e anche un numero statisticamente inferiore di vari tipi di tumori.

Poi, lo stesso Campbell, insieme ai dottori Dean Ornish, dell’Università della California, e al nutrizionista Caldwell Esselstyn hanno cominciato a proporre un sistema nutritivo sempre più povero in grassi, di qualunque tipo essi siano, sostenendo che quello che è accessibile tramite una dieta vegana a base di piante complete è del tutto sufficiente, e non appesantisce le arterie ed il cuore.

«Quando ho cominciato a cucinare seguendo un’alimentazione Wfbno ho dovuto imparare a sostituire molti ingredienti, e anche modificare alcuni dei miei soliti metodi di cottura. Per saltare le verdure in padella, facevo come quasi tutti, ovvero usavo un po’ di olio – adesso, invece, utilizzo solo acqua o concentrato di brodo vegetale. Per fare impasti per torte dolci o salate ho imparato a sostituire ai grassi la farina di mandorle», dice Amanda Powell, nutrizionista londinese, che dopo diversi anni di veganesimo ha deciso di nutrirsi in modo ancor più vicino a quanto prodotto direttamente dalle piante, senza troppi intermediari.

Dal punto di vista nutrizionale, spiega, «si tratta di cercare di privilegiare il più possibile il potenziale nutritivo presente in tutte le parti della pianta. Moltissimo di quello che è presente sulle nostre tavole è processato, e anche se volessimo farlo, non potremmo eliminarlo interamente: spingendo quest’idea al limite, si potrebbe considerare che anche il sale è processato, o la salsa di soia. Ma lo sforzo è quello di nutrirsi di cibi il meno processati possibili e ad alto valore nutritivo, non di tentare l’impossibile».

No ai cibi processati

Le olive, dunque, vanno bene e possono far parte della dieta, grazie anche al loro concentrato di grassi – ma non la loro spremitura. Anche il tofu è considerato solo parzialmente processato, ed esistono molte ricette che consentono di consumare anche le parti del fagiolo di soia che avanzano dalla produzione del tofu (una pasta bianca abbastanza asciutta, composta di fibre e proteine, nota con il suo nome giapponese, okura, e che è utilizzata in mille maniere, sia per ispessire zuppe e stufati che come ingrediente per ripieni, o anche solo scaldata in padella con vino di riso e condito con salsa di soia) consentendo dunque di rimanere fedeli al precetto di «cibi completi».

Lo svantaggio principale di questa alimentazione, almeno al momento, è che richiede un notevole impegno da parte di chi cucina: «Non ci sono ristoranti Wfbno dedicati nemmeno a Londra, credo forse in California, ma questo è un tipo di alimentazione che si può seguire principalmente cucinando a casa» dice ancora Powell. La quale aggiunge che dal punto di vista nutrizionale e salutare si tratta di una dieta priva di controindicazioni, «certo, presenta delle limitazioni e un discreto impegno, ma elimina problemi di digestione e aiuta a mantenere basso il colesterolo e può aiutare contro i problemi cardiaci».

Un’aspirazione

Come molte altre scelte di vita vegane, anche l’alimentazione Wfbno rappresenta, in parte almeno, un’aspirazione: nessuno può davvero nutrirsi solo di tutto piante, ma solo cercare di avvicinarsi il più possibile a quest’ideale. Per mangiare nel modo più sano possibile, in tutta sostenibilità. Il bonus è quello di avere un impatto minimo sull’ambiente, dal momento che questa dieta riduce al minimo gli scarti alimentari, oltre ad avere tutti i vantaggi ambientali del veganesimo.

Infatti, se è ormai più che confermato l’impatto distruttivo di una dieta che prevede carne, latticini, pesce e uova, l’ulteriore eliminazione di olio fa sì che non venga sostenuta l’industria della carne in maniera indiretta, ovvero acquistando prodotti i cui scarti di produzione sono poi utilizzati per fabbricare mangimi per gli animali d’allevamento.

L’impatto ambientale è ancora più generalizzato (per quanto le statistiche disponibili siano poche) dal momento che la decisione di rifiutare cibi processati e di nutrirsi direttamente delle piante porta ad un consumo energetico inferiore per la produzione stessa degli alimenti.

Insomma, un approccio certo impegnativo, ma che potrebbe essere in grado di aiutare alcuni problemi di salute nostra e del pianeta – con in più, per chi ha tempo da dedicare alla cucina, la possibilità di scoprire nuovi metodi per preparare nuovi piatti.

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