La funivia del Mottarone, dove domenica 14 persone sono morte in un incidente, era un’impresa che senza l’aiuto pubblico non riusciva a stare in piedi.

Per decenni i suoi proprietari, la famiglia Nerini, hanno ottenuto milioni di euro dal comune di Stresa e dalla regione Piemonte per svolgere lavori di manutenzione straordinaria e per ricostruire l’impianto quando era ormai fatiscente. Anche grazie a questi aiuti, negli ultimi anni, la funivia si era trasformata in un affare.

Ieri l’arresto di Luigi Nerini, amministratore e proprietario della società, e di due dei suoi tecnici, accusati di aver manomesso parte dei sistemi di sicurezza della funivia per evitare una nuova chiusura per manutenzione e non perdere così l’inizio della stagione primaverile, ha gettato una nuova luce su una vicenda che appariva già complessa e controversa.

La mano pubblica

Come gran parte dei piccoli impianti di risalita, anche la funivia di Stresa ha bisogno di finanziamenti pubblici per operare. Costruita negli anni Settanta è stata quasi sempre gestita dai Nerini, una famiglia di imprenditori del trasporto nella zona di Verbania. Ma i loro rapporti con lo stato, dal quale dipende la loro impresa, sono stati particolarmente tormentati.

Alla fine degli anni Novanta l’impianto ha bisogno di una manutenzione straordinaria ventennale e la famiglia non ha, o non vuole spendere, il denaro necessario. «Si trattava di una grossa cifra, qualche miliardo di lire dell’epoca: l’impianto era tenuto male», ricorda oggi Gianni Porrazzo, segretario della federazione dei lavoratori dei trasporti della Cisl di Novara, che ha seguito le vicende della società per 15 anni.

La famiglia Nerini lascia la gestione dell’impianto che viene rilevato da una società del vicino comune di Verbania. Ultimati i lavori di ristrutturazione nel 2000, Luigi Nerini, figlio del fondatore della società, ottiene di nuovo la concessione e torna a gestire l’impianto.

Ma la funivia continua ad aver bisogno di piccoli interventi di manutenzione anche negli anni successivi e la società riesce quasi sempre a ottenere finanziamenti regionali per eseguirli: una volta 150mila euro, un’altra 400mila. Chiusure per manutenzione o in attesa che arrivino i soldi per metterle in atto preoccupano gli albergatori locali, che contano molto sulla funivia, una delle principali attrazioni della zona.

Nel 2010, ad esempio, Federalberghi pubblica un comunicato per chiedere alla politica di intervenire per scongiurare una «chiusura a tempo indeterminato». Sarà una costante anche degli anni successivi: quando Nerini minaccia di chiudere, imprenditori e politici locali sono rapidi a mobilitarsi per evitare che accada.

La crisi

Nel frattempo, nonostante gli investimenti pubblici, l’impianto continua a deteriorarsi. Una recensione online di quel periodo parla di «avvilente degrado». Porrazzo dice che nel 2014 era arrivato a uno stato «fatiscente». Anche i conti vanno male. Nel 2010, 2011 e 2013, l’azienda registra perdite per migliaia di euro.

Quando, di proroga in proroga, arriva il momento in cui l’impianto deve essere sottoposto a una nuova revisione ventennale, Nerini sostiene nuovamente di non aver i soldi per l’intervento. Comune e regione offrono di pagare metà dei circa 3,3 milioni di euro previsti per il restauro, ma non sono sufficienti e la gara va deserta. La gara viene rifatta, con copertura totale delle spese da parte del pubblico. Nerini è l’unico partecipante e vince. L’impianto viene rimesso a nuovo in due anni e si trasforma in una macchina per soldi. Nel 2019 arriva ad avere un utile pari a 400mila euro, un quinto del fatturato.

L’imprenditore

Quando ha saputo delle accuse e dell’arresto di Nerini, il sindaco di Baveno Alessandro Monti ha detto che si è dovuto sedere. Baveno è il comune di poco meno di 5mila abitanti accanto a Stresa. È qui che Nerini vive in una villa del primo Novecento con la sua famiglia. «Lo conosco come una persona seria, uno dei tanti imprenditori della zona», dice Monti. Andare sulla funivia con i bambini all’inizio dell’estate e fare un giro ad Alpyland, il parco tematico costruito da Nerini al capolinea della funivia, «era quasi un rituale», racconta.

Chi invece con Nerini ha dovuto trattare su questioni di lavoro lo definisce “ruvido”. Porrazzo, il sindacalista della Cisl, dice con un eufemismo che i rapporti di Nerini con il sindacato erano «non ottimi» e che ha cessato di avere a che fare con lui dopo il licenziamento di un iscritto al sindacato nel 2014. Da allora, dice, «la gente ha avuto un po’ di paura a stare nel mondo sindacale».

«I rapporti non erano buoni – conferma Giacomo Olivo, sindacalista della Fit-Cgil – Come molti altri piccoli imprenditori Nerini non era abituato al confronto, ma solo alla dinamica padrone dipendente».

I rapporti con Leitner

Nerini sembra aver avuto rapporti complicati anche con la Leitner, la principale società di costruzione di impianti a fune in Italia. Quando nel 2015 Nerini rivince la concessione è grazie a un’alleanza con Leitner, che si occuperà del rinnovo dell’impianto.

Ma già nel marzo 2016 la Leitner cita in giudizio l’azienda di Nerini per mancati pagamenti e ottiene l’ipoteca delle quote della società mista creata per la realizzazione dell’impianto e su alcuni immobili di proprietà dell’imprenditore.

La situazione si risolve l’anno dopo, quando Nerini affida a Leitner un contratto di 13 anni per la manutenzione dell’impianto e salda il suo debito con la società. Inoltre, come direttore di esercizio dell’impianto, Nerini sceglie un dipendente di Leitner, uno dei tre arrestati ieri, che esercita il lavoro come libero professionista. Il suo avvocato dice che né prima né dopo il fermo è stato sentito da magistrati.

 

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