Gli agenti sono entrati nelle celle con le loro foto in mano. Una caccia all’uomo. Sono stati presi uno a uno, perquisiti, presi a calci, pugni, sputi e manganellate nei corridoi del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo aver subito ogni sorta di angheria, sono stati messi in isolamento, senza acqua, senza coperte, né la possibilità di cure per le ferite riportate.

È la storia dei 15 detenuti del reparto Nilo, dove vengono ospitate prevalentemente persone con problemi psichici o di tossicodipendenza, considerati i responsabili della protesta pacifica del 5 aprile 2020 in carcere, preludio all’orribile mattanza compiuta il giorno successivo dagli agenti. Tra i 15 c’era anche Lamine Hakimi, il giovane algerino affetto da schizofrenia, morto in una cella di isolamento e in stato di abbandono un mese dopo il pestaggio subito dai poliziotti penitenziari.

Montaggio di Carmen Baffi

Accanimento premeditato

Le testimonianze di questi 15 detenuti, raccolte dai magistrati della procura sammaritana, raccontano l’accanimento della polizia penitenziaria: per loro il pestaggio del 6 aprile non è stato abbastanza. «Nei giorni successivi al 6 aprile, anche nel reparto Danubio, i detenuti vivevano costantemente in un clima di sopraffazione. Basti considerare che i predetti erano continuamente minacciati dagli agenti di far intervenire la cd. “squadretta”», scrivono gli inquirenti.

Il racconto della sorte dei 15 è corredato dalle foto dei loro corpi, scattate dieci giorni più tardi, in cui i lividi su volti, schiene, gambe e glutei raccontano meglio delle parole la brutalità delle violenze subite. Sono state scattate con un ritardo di molti giorni rispetto ai fatti dai consulenti della procura perché prima le visite dei medici ora indagati erano esami sommari, fatti tenendosi a distanza dai pazienti e senza approfondire la natura dei traumi.

Senza acqua e medicine

«Calci, pugni, manganellate in testa. Ricordo che perdevo sangue dalla bocca e dal naso». Inizia così il racconto ai magistrati di uno dei 15 detenuti portati in isolamento. Erano andati a prenderlo nella sua cella, perquisito e poi portato in una stanza.

«In quell’area alcuni agenti ci gridavano: “Napoletano di merda, vi dobbiamo rompere il culo, ora non state nemmeno tranquilli quando dormite, vi veniamo a prendere di notte”». Intimidazioni e minacce, prima di essere portati al Danubio, il reparto dell’isolamento. «Non avevamo coperte, ci coprivamo con la federa del materasso. Per cinque giorni ho vissuto in queste condizioni», racconta. L’isolamento, suo e degli altri 14, è considerato illegittimo dalla pubblica accusa. Nessuna cura, solo botte e minacce.

Anche un altro detenuto racconta l’orribile odissea. «Per le manganellate che mi hanno dato sulla pancia e sul culo quando andavo in bagno usciva sempre sangue», dice. Ricorda che non ci sono state solo le botte: «Mi hanno sputato in faccia, “uomo di merda, sei una latrina”, dicevano, lo facevano con tutti». Nelle celle dell’isolamento non c’era riscaldamento: «Nemmeno le coperte ci hanno dato, io e il mio compagno di cella siamo stati costretti a dormire abbracciati. Ci hanno dato qualcosa solo dopo l’incontro con il magistrato di sorveglianza. Non avevamo cambio di vestiti, spazzolini, dentifricio, non ci hanno dato nemmeno da mangiare la sera del 6 aprile», dice.

Sputi in bocca

«Dopo che sono stato preso dalla mia stanza, sono stato sottoposto ad una minuziosa perquisizione, anche anale. Gli agenti si sono serviti di uno sfollagente per ispezionare le mie parti intime. Non hanno introdotto il manganello nel mio ano, ma ho comunque sentito un forte fastidio e dolore», ricorda ancora scosso ai magistrati un terzo detenuto. Lui è stato riempito di colpi in testa e in serata ha subito una crisi epilettica: anche lui è stato visitato da un medico che si teneva a distanza.

I sanitari passavano, ma i detenuti non potevano dire nulla. «La guardia dietro il medico mi faceva segno di non dire niente quando ci chiedeva come stai… Ma siamo tutti pieni di sangue, come stiamo tutto a posto?!». Gli agenti, anche prima della visita del magistrato di sorveglianza il 9 aprile, minacciavano i 15: «Mi lanciano una bottiglia in faccia, poi mi dice: “Mi raccomando di’ che sei caduto dalle scale!”», dice ai magistrati un altro detenuto.

Il clima di intimidazione è totale. «Ogni oretta le guardie venivano per intimorirti: “Ringraziate la Madonna che state in piedi, io andrei a prendere la pistola e ti sparerei in testa”», ricorda un altro dei 15. Quella sera, in isolamento, chiedevano di bere: «Loro mi diedero una bottiglietta d’acqua vuota, poi deridendomi mi portarono in bagno, tirarono lo sciacquone, dissero di bere l’acqua del cesso». Prima il massacro poi il dileggio.

«Mi ha sputato in faccia tre volte, dicendo che ero l’antistato, un uomo di merda, mi umiliava proprio assai», è la testimonianza di un altro dei 15 detenuti.

Sputi e insulti erano all’ordine del giorno al Danubio. «Mi hanno sputato pure in bocca proprio, infatti mi uscì subito l’herpes, dopo un’ora già ce l’avevo», ricorda un altro. «Un mio compagno sanguinava dalla bocca, era in ginocchio, gli dicevano: “Ti dobbiamo mettere il cazzo in bocca”», racconta sempre uno dei 15. Li hanno massacrati, poi umiliati e, infine, denunciati.

Il ministero della Giustizia, guidato allora da Alfonso Bonafede, ha creduto alla storia dei resistenti messi in isolamento. Era una storia falsa: i 15 erano solo le vittime sacrificali.

 

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