Tre numeri messi in fila: 143. Come uno squillo di tromba, come un colpo di tuono, come un fastidioso allarme partito senza preavviso. Sono i numeri a cui è arrivato lo spread, il differenziale tra i Bund tedeschi e i titoli di stato italiano. In apertura stamattina: 135. Non sono cifre da emergenza ma un segnale sì. Bello evidente.

Nel momento in cui i partiti italiani, più o meno esplicitamente, dicono e soprattutto pensano, di liquidare Mario Draghi, ecco che la realtà dei mercati torna a ricordare che l’Italia non è ancora fuori dalla crisi. Proprio per niente. E tuttavia la voglia di leader e partiti di “chiudere la parentesi” è forte, fortissima. Come su queste colonne ha spiegato bene Gianfranco Pasquino, scrivendo un’immaginaria lettera di congedo al premier.

Oggi sulla prima pagina del Corriere della Sera Daniele Manca tende a non drammatizzare, ma ricorda che «non possiamo distrarci». Non si può pensare «che basti decidere un nome per una carica o per un’altra senza che il tutto venga legato a politiche che necessariamente devono avere un orizzonte lungo per un Paese troppo spesso abituato a reagire alle emergenze».

Guido Maria Brera, esponente del mondo finanziario della City londinese, che sull’anno dello spread ha scritto un romanzo di grande successo poi diventato serie tv come I Diavoli, scrive anche lui proprio oggi sulla Stampa. La sua tesi è schierata: l’eventuale elezione al Colle di Supermario sarebbe «un passaggio parlamentare che trasformerebbe in maniera definitiva il tecnico in politico» e allo stesso tempo riconoscerebbe «in Mario Draghi l’incarnazione materiale di un nuovo Zeitgeist, un nuovo spirito del tempo, il più lontano e diverso possibile dalla catastrofe».

Quanti grandi elettori di Montecitorio terranno conto dei mercati? Qualche numero anche i peones l’hanno a mente: all’inizio del governo Draghi lo spread era stabile a 90. Durante il Conte 2 nel 2020, in piena pandemia, era arrivato a 262. Il 9 novembre di dieci anni fa, alle dimissioni di Berlusconi da premier, era a 575. Catastrofe, appunto.

Il voto a distanza

Ma l’emergenza spread, con il nostro debito al 150 per cento del Pil non è certo l’unica emergenza. Anche sui grandi elettori pesa la minaccia di Omicron, la nuova variante del virus. Ieri sera Stefano Ceccanti, costituzionalista del Pd, ha mandato questo whatsapp: «A proposito di Quirinale vi propongo qui una predica inutile dopo di che, come disse qualcuno, dixi et salvavi animam meam: non capisco perché, vista l’evoluzione dell’emergenza virus, invece di ammassare più di mille persone nell'aula di Montecitorio che in questo caso è solo seggio elettorale, e quindi senza problemi di dibattiti, ecc. non si possa far votare noi deputati con un pc, spalmati dentro varie sedi della Camera (per carità, tutti nel palazzo), i senatori suddivisi in analoghe sedi dentro Palazzo Madama e i delegati regionali dal rispettivo consiglio».

Ne ha scritto oggi Ettore Colombo. Sarebbe un inedito caso di Vad, voto a distanza. Non è che Roberto Fico ci sta pensando? In quel caso avvertite il Cavaliere che le foto di controllo dallo smartphone saranno più semplici.

Soluzione di palazzo e Taverna

Anche Paola Taverna dei Cinque stelle ci ha fatto sapere che trova quella di Giuseppe Conte una buona idea: «L’Italia sarebbe finalmente matura per una rivoluzione politica e culturale, con una donna al Quirinale», dice al Messaggero. Ma a forza di distinguersi da Leu e Pd, e dirsi disposto ad un dialogo col centro destra il M5s “andreottiano” di Conte non finirà per perdere ogni peso politico? Urge che Marco Travaglio si schieri su Letizia Moratti. O no?

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