Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

Finita la conferenza stampa, inizio subito a raccogliere le sue confessioni. Mi dice che può farci catturare alcuni latitanti e che è in grado di indicarci i luoghi dove sono seppelliti esplosivi, armi e cadaveri.

Non è un uomo d'onore e non ha vincoli di sangue con Cosa nostra. È solo un semplice affiliato e, in fondo, è un rapinatore, uno dei tanti ladri del quartiere Brancaccio. Uno abituato a impossessarsi dei Tir a mani nude. Non aveva bisogno né di pistole né di coltelli. Appena si avvicinava gli autisti se la davano a gambe: solo vederlo metteva paura.

Era forse uno dei più abili e determinati ladri della sua zona. Rubava tutto e dappertutto: dalle Fiat Uno, la sua specialità, ai tabacchi lavorati, nelle gioiellerie e negli uffici postali. Non faceva altro che rubare. A volte era bravo, a volte un po' maldestro. Un giorno, a Bagheria, durante una rapina a un camion che trasportava casse di sigarette, per un suo banale errore, aveva quasi rischiato il linciaggio.

Un suo complice che lavorava ai monopoli di Stato gli aveva fatto avere la notizia «buona» e gli aveva fornito i dettagli di alcune consegne di sigarette alle tabaccherie. Individuato il punto debole del trasporto, Romeo con i suoi amici si era messo al lavoro.

Appena il camion carico di casse di sigarette si ferma davanti a una rivendita, mentre i suoi complici tengono autisti e tabaccaio sotto la minaccia delle armi, Romeo si impadronisce del mezzo e salta su. Agilissimo, nonostante la sua enorme mole, si mette alla guida e se lo porta via.

La classica rapina che, con la sua esperienza, fa ad occhi chiusi. Ma nella concitazione dimentica di chiudere bene una delle portiere posteriori. E scappa, con il cassone semiaperto. Nella fuga lo sportello sbatte a ogni curva e qualche cassa di sigarette si perde per strada. Romeo continua la sua corsa. Troppo rischioso fermarsi in centro città per chiudere la porta.

A un incrocio si imbatte in un corteo funebre, con tanto di feretro, prete, parenti vestiti a lutto e tutto il resto. Invece di fermarsi, accelera e sterza per evitare il funerale. Ma la manovra è azzardata. La maniglia in acciaio dello sportello spalancato aggancia una corona di fiori e se la porta via. Non lo avesse mai fatto.

Il camioncino prosegue, con quella corona sbilenca al seguito, con il nastro nero e la scritta «Per il mio amato cognato» che, ormai strappata, penzola dalla ghirlanda funebre. Un gruppo di parenti del morto, coadiuvati dagli impresari delle pompe funebri, si mette all'inseguimento del mezzo, impacciato a districarsi tra gli stretti vicoli di Bagheria. A piedi, correndo a perdifiato, incitati dalle urla degli altri parenti a lutto: «pigghiatilu, ammazzatilu, 'stu crastu!».

Romeo normalmente non ha paura di nulla, ma questa volta è in preda al panico. Non sa cosa fare. Dagli sbirri si scappa e, poi, al massimo si rischia qualche anno di carcere; i criminali avversari si combattono e, se necessario, si uccidono; ma con i parenti di un morto non si scherza. Soprattutto se sono inferociti e cercano di recuperare la corona del caro estinto che gli hai appena portato via. Porta male, malissimo. Pietro Romeo legge l'incidente come un brutto, terribile presagio. Appena può abbandona il camion con tutto il suo prezioso carico di sigarette. E se la dà a gambe.

Quando mi racconta questo episodio, mentre io mi trattengo a stento dal ridere, mi confessa che non aveva mai avuto tanta paura in vita sua. L'idea di avere mandato all'aria un funerale non lo aveva fatto dormire per alcune notti. È un ragazzo forte ma semplice e, come tutti i mafiosi, a suo modo religioso e superstizioso al tempo stesso.

Tutto sommato aveva fatto una vitaccia. Rubava quasi sempre in proprio ed era anche capace di colpi milionari. Ma i guadagni non sempre corrispondevano agli sforzi profusi. Anche lui era costretto a versare gran parte degli utili alle famiglie che comandavano in quel territorio.

Una volta, negli anni Ottanta, gli era capitato un furgone carico d'argento. Merce per oltre settecento milioni di lire dell'epoca. Una fortuna! Ma come al solito si era posto il problema del «dazio» da pagare ai boss, che stavolta era particolarmente oneroso. In tutto Romeo, alla fine, era riuscito a intascare appena una decina di milioni.

In Sicilia anche i rapinatori devono corrispondere il pizzo alla mafia. Del ricavato di ogni colpo rimane loro una piccola percentuale calcolata sul valore complessivo della merce: più è alto, più si abbassa la quota di utili che rimane al ladro. Il resto se lo prende Cosa nostra, senza aver mosso un dito.

A Romeo questo sistema proprio non andava giù. Ma d'altra parte non aveva scelta. Anzi, si era trovato di fronte a un bivio: stringere i rapporti con i boss e diventare un mafioso, oppure rischiare di non lavorare più. O, peggio, di essere eliminato come era già accaduto ad alcuni suoi amici e «colleghi». Aveva optato per la prima soluzione e, per le sue indubbie capacità criminali, era stato arruolato nel gruppo di Nino Mangano, e, quindi, di Leoluca Bagarella, diventando uno dei sicari più esperti e affidabili.

L’affiliazione

Da rapinatore ad «affiliato» di Cosa nostra il passo è breve. Aveva già fatto il suo primo omicidio utilizzando armi da fuoco. Ma sparare non era proprio cosa sua. Aveva sbagliato più volte la mira, gli si era inceppato il fucile, aveva dovuto ricorrere a una pistola con cui, per errore, aveva ferito donne e bambini. Insomma, era un pessimo tiratore. Al seguito di Mangano e Bagarella, si era specializzato invece negli strangolamenti: «Iu» mi dice candidamente «eru sempri chiddu ca tirava 'a corda».

Gli affiliati sono i soldati semplici, la base dell'associazione mafiosa. Uomini totalmente a disposizione dell'organizzazione, che intascano un vero e proprio stipendio. Non tantissimo: all'epoca due milioni, due milioni e mezzo di lire al mese. Ma poi ci sono i bonus, gli extra, e soprattutto lo «status» e la possibilità di salire nella scala gerarchica, di fare carriera, di diventare uomo d'onore: un cittadino a pieno titolo di quello Stato illegale che è Cosa nostra, con tutti i diritti e i doveri conseguenti.

L'affiliato, che a differenza dell'uomo d'onore non ha mai ricevuto la punciuta (la puntura di spina di arancio selvatico al dito nel corso della classica cerimonia del giuramento mafioso), non è certo irriducibile e quando si vede davanti la prospettiva dell'ergastolo, in momenti in cui lo Stato manifesta una chiara determinazione nel contrasto al fenomeno mafioso, spesso non ci pensa due volte e vuota il sacco.

Come fa Pietro Romeo, che si dimostrerà nel tempo uno dei più fruttuosi collaboratori di giustizia.

Testimone dalla memoria eccezionale, sincerissimo, attendibilissimo. Almeno apparentemente, non si pone alcuno scrupolo morale.

«'Sti crasti manco mi davano i sordi p'a benzina.»

«I soldi per fare il pieno alla macchina?» gli chiedo.

«Ma quali machina! La benzina da mettiri 'nti i biduna p'abbrusciari i negozi ca nni dicivanu iddi:

chiddi di i commercianti ca nun pagavanu 'u pizzu!»

Le prime fasi della sua collaborazione sono particolarmente attive, dinamiche. Con grande precisione e semplicità, col suo dialetto stretto stretto, pieno di sgrammaticature, Romeo accompagna la polizia in un viaggio mozzafiato fatto di rifugi, cadaveri e luoghi sinistri. Viene messo a bordo di una «balena», un normale furgoncino con delle feritoie camuffate da cui è possibile vedere senza essere notati. Un veicolo chiamato balena, proprio come quella di Giona, con la differenza che dentro questa specie di cetaceo meccanico non c'è un profeta, anche se di cose ne sa ugualmente tante. E ce le dice.

Indica, guida, indirizza: un latitante qui, un covo là. Lì un deposito di armi, qua un cadavere sotterrato.

I compari da arrestare

La notte stessa del suo arresto Romeo ci porta ai nascondigli dei suoi compari irreperibili. Ce ne fa catturare tre sul momento: Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano e Salvatore Faia. Anche loro giovani rapinatori passati al servizio della mafia, ora affiliati di Cosa nostra, i primi due armati e responsabili di numerosi omicidi.

Lo Nigro e Giuliano sono anche quelli che, nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993, avevano collocato il Fiorino Fiat imbottito di esplosivo sotto la Torre del Pulci, accanto alla Galleria degli Uffizi a Firenze. Gli autori materiali della strage di via dei Georgofili, gli esecutori del più grave attentato al nostro patrimonio artistico e, non lo si deve dimenticare, gli assassini di cinque persone innocenti. Un rapido giro per Palermo e dintorni con Romeo sui mezzi della polizia di Stato: «Qui ci sta Lo Nigro; quello è l'appartamento dove va a dormire Giuliano; là troverete certamente Faia». Tutto facile, tutto semplice. Il quarto latitante di cui Romeo conosce l'indirizzo, Gaspare Spatuzza, ci sfugge per un soffio.

Poi si passa alla ricerca delle armi. Cominciamo da un arsenale nascosto in un posto che Pietro Romeo chiama «la machina dell'acqua». Una grossa pompa a servizio di un pozzo che eroga, ovviamente a pagamento, acqua nella zona di Corso dei Mille. Uno dei tanti pozzi privati che esistono a Palermo in barba alla legge che attribuisce al demanio la proprietà delle acque sotterranee di pubblico interesse.

Sotto la cisterna troviamo numerose armi automatiche da guerra di straordinaria pericolosità: i mitici Uzi, piccole ma efficacissime mitragliette di fabbricazione israeliana, e le omologhe Skorpion americane.

Romeo ci porta anche a un deposito di un paio di quintali di esplosivo, sotterrato nelle campagne di Ciaculli. Un materiale particolare, proveniente dal mare, dalle vecchie mine che erano state disseminate al largo del porto di Palermo durante la seconda guerra mondiale.

Ogni tanto qualcuno di questi ordigni rimaneva impigliato nelle reti dei pescatori che lo tiravano su insieme al pesce di paranza. Invece di chiamare il genio militare e consegnare i reperti bellici, i pescatori li portavano a riva, sulla spiaggia, e li rivendevano alla mafia. Un modo come un altro di arrotondare i loro non certo cospicui guadagni.

Le mine, completamente ossidate e arrugginite, venivano quindi svuotate del loro contenuto. Dentro c'era tritolo, tritolo pietrificato, perché rimasto sigillato in mare per decenni; ma pur sempre tritolo. Portato in una cava, veniva macinato fino a diventare polvere e poi messo ad asciugare al sole per eliminare le residue tracce di umidità. A quel punto l'esplosivo era tornato perfettamente attivo, perfettamente utilizzabile.

Una parte di questo tritolo doveva servire, secondo le dichiarazioni di molti collaboratori, a far saltare in aria il commissariato di Brancaccio a Palermo, che in quel periodo stava facendo «troppe» indagini sul territorio, soprattutto sul fenomeno delle estorsioni ai commercianti.

Le armi fatte ritrovare

Le conoscenze di Pietro Romeo superano anche lo stretto di Messina. Ci conduce a Formello, nei dintorni della capitale che raggiungiamo rapidamente e riservatamente grazie a un Observer, il piccolo ed economico aereo che ha a disposizione la polizia di Stato.

Nei pressi della Cassia bis, interrato in una buca, troviamo più di un quintale di esplosivo. Questa volta la qualità è diversa da quel vecchio tritolo ripescato dal mare. Siamo davanti a un tipo di materiale deflagrante molto più moderno, una sorta di miscuglio di T4 e semtex in balle. Roba da far saltare in aria mezzo quartiere, ma non era questo l'obiettivo di chi lo aveva sotterrato lì.

L'esplosivo ritrovato a Formello era la parte rimanente di quello utilizzato per commettere, nell'aprile 1994, il fallito attentato al pentito Salvatore Contorno ed era stato occultato nella campagna romana in attesa di essere trasferito a Pisa, quando sarebbe arrivato l'ordine di far saltare la Torre. Sì, proprio la Torre di Pisa. Progetto vero, questo. Ideato in linea di massima e messo in agenda da Cosa nostra nell'ambito della strategia delle bombe del '93. E che poi per fortuna non fu attuato. «Se un giorno Pisa si trovasse senza la Torre...» Questo era il messaggio che i boss, guidati dalla regia di Leoluca Bagarella, mandavano in quei giorni.

copertina libro sabella cacciatore

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