Dopo quasi tre mesi senza una goccia, a primavera iniziata la pioggia sul nord Italia,e quindi sul Po, non è ancora arrivata. La siccità ha colpito tutta la Pianura Padana: quest'inverno le precipitazioni sono state appena meno della metà di quelle che cadecano normalmente. Il più grande fiume d’Italia è di nuovo in secca, come oramai gli accade quasi ogni anno. Con un’aggravante.

Di solito è nei mesi estivi che si verifica questo fenomeno. In molte località la portata è ridotta a meno di un terzo e il fiume è diventa una distesa di dune, facilitando le escavazioni abusive di sabbia, fenomeno mai contrastato seriamente che contribuisce a ferire il più lungo corso d'acqua italiano.

Se il Po è ai minimi storici, anche su Alpi e Appennini non c’è più neve e nei grandi laghi alpini l’acqua scarseggia da tempo. La situazione è molto critica per l’agricoltura e per l’ambiente e siamo solo a fine marzo. È tornata la grande paura della siccità del 2017, che causò ingenti perdite all’agricoltura e danni irreparabili per gli ecosistemi e l'ambiente di tutto il bacino idrografico padano.

Ma questa paura è ormai ricorrente negli ultimi vent’anni, a causa della crisi climatica e della pessima gestione idraulica del corso del Po. A questo proposito c'è da chiedersi perchè la manutenzione, la riduzione delle estrazioni di sabbia (anche abusive) e gli interventi necessari non siano stati fatti.

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Il 2022 è il il settimo anno di secca per il Po nell’arco di appena due decenni. Il Nord della penisola, infatti, è una delle aree del continente europeo dove gli effetti dei cambiamenti climatici sono più visibili. Dal 1970 a oggi, le temperature medie annue nella pianura Padana sono aumentate di 2°C. E negli ultimi trent’anni le piogge annuali sono diminuite in media del 20per cento, e quasi del 50per cento durante primavera ed estate. Con piogge scarse e temperature più alte la siccità diventa sistematica.

Il ritorno della paura

Foto LaPresse-Elisa Contini 24/06/2017 Parma (Italia) cronaca. Siccità, dichiarato lo stato d'emergenza a Parma. Nelle foto immagini del fiume Po in secca. Photo LaPresse-Elisa Contini 24/06/2017 Parma (Italy) news. After an exceptional drought, the state of calamity was required. In the photo: generic photos of the river Po in dry

Per rendersi conto della siccità del Po basta salire sulle Alpi, dove i laghi soffrono. Il lago di Como che dà acqua all’Adda, affluente del Po, è all’8 per cento della sua capacità di riempimento quando dovrebbe essere al 90 per cento. Anche i laghi Maggiore, d'Iseo e di Garda non stanno meglio, trovandosi al 30per cento della loro capacità di riempimento. Dal lago Maggiore esce il più grande affluente del Po, il Ticino, altro fiume in secca.

Il Po è fondamentale per gli ecosistemi umani e naturali, e dalle sue acque dipende il 30 per cento del Pil agricolo nazionale. E se nel 2017 i danni provocati dalla siccità hanno raggiunto i 2 miliardi, non è difficile prevedere quali conseguenze avrà quella di quest’anno.

Con la portata del fiume che scende preoccupa anche l’avanzata del cuneo salino, l’acqua salata che dal mare risale lungo il delta del fiume. Andando avanti così provocherà grandi danni per l’agricoltura, che non può irrigare con l’acqua salata, e uno sconvolgimento dell’ecosistema naturale. Quando cominceranno i prelievi di acqua per irrigare i campi, il livello scenderà ancora, e fra poco comincia la stagione dell’irrigazione.

Il ruolo del Po

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Secondo uno studio francese l'alveo del Po, dal 1960 ad oggi, si è abbassato paurosamente di quasi 6 metri, a causa dell'enorme volume di estrazioni di sabbia al ritmo di 10 milioni di metri cubi annui. Un dato che da solo dovrebbe spingere ad una cura manutentiva organica per la protezione degli argini e dei pennelli realizzati 70 anni fa.

Il Magistrato del Po, cioè l'autorità unica di governo dell'intero bacino idrogeologico, è stata smantellata con il Federalismo regionale, e il contrasto alla trasformazione del Po da quasi navigabile a non navigabile è sfuggito di mano alle regioni del Nord che si sono soltanto suddivise il territorio.
La gestione del fiume è sottoposta a un dedalo di giurisdizioni: da un lato quella dell'agenzia interregionale per il fiume Po (AIPO), ente strumentale delle Regioni Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto: nata nel 2003 da una costola del Magistrato del Po, avrebbe competenze sulla sicurezza idraulica del territorio e la gestione delle opere per la navigazione fluviale. Dall’altro quella dell'Autorità di bacino del fiume Po, che ha compiti relativi ad attività di studio e di predisposizione del Piano di Bacino, e della programmazione, del coordinamento e del controllo dei relativi Piani Stralcio a livello di sottobacino per effetto delle nuove norme sulla difesa del suolo. In più ci sono anche le province con le loro competenze idrauliche.

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Il risultato è che nessuno, in questi anni, ha messo in atto una politica unitaria di tutto il bacino al fine di ridurre lo spreco d'acqua che limita la capacità di risorsa disponibile per l'irrigazione, e la capostazione al fine di trasformazione in energia elettrica, con il fiume che ha assunto sempre più un regime torrentizio cancellando ogni possibilità di navigazione per il trasporto delle merci.

Mentre il Po moriva e diventava sempre meno navigabile gli investimenti in infrastrutture portuali non sono però cessati. A Cremona il porto interno addirittura non è più collegato al fiume (grazie al suo abbassamento) e il progetto degli anni Sessanta di collegarsi con un canale navigabile fino a Milano è naufragato. Ma la spesa pubblica è stata ingente.

Sono da aggiungere i porti di Mantova, di Rovigo, Boretto e Nogaro oltre a una decina di banchine pubbliche e private lungo la via d’acqua.
Il fiume e l’ecosistema stanno morendo, la navigabilità anche, ma non cessano gli investimenti (inutili) e i convegni (inutili) che dietro il sogno della navigazione fluviale come quella tedesca sul Reno o quella francese sul Rodano nascondono un campanilismo che tende a frammentare la spesa grazie all'inerzia amministrativa. Dietro gli allarmi apocalittici di questi giorni non c'è la volontà di impostare una risposta unitaria ma solo quella di continuare a suddividersi le prebende pubbliche.

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