Tra  i tanti primati che Napoli può vantare c’è quello dei morti ammazzati “per caso”. Quasi tutti giovani e giovanissimi, ben 40 dal 1982 in poi, un centinaio compresi i feriti.

Nelle strade di Napoli, nei suoi quartieri e nei suoi vicoli affollati, nei bar, nei negozi, nei circoli ricreativi può capitare di trovarsi in mezzo a sparatorie tra clan, a “stese” dimostrative nel quartiere della banda avversaria (costringendo tutti i passanti a stendersi a terra per non essere colpiti da centinaia di colpi di armi da fuoco esplosi ripetutamente)  e correre il rischio di essere uccisi o feriti più che in qualsiasi altra città italiana ed europea.

Prima che  la vittima innocente venga riconosciuta come tale (perché capitata in mezzo a uno scontro armato o scambiata per un’altra persona) ci vuole tempo.

Immaginate il dolore di una famiglia che vede un suo caro ammazzato senza che c’entri niente di niente con il mondo criminale e al tempo stesso deve difenderne la memoria di persona normale che ha il diritto di passeggiare per strada, prendersi un caffè al bar, giocare a biliardino in un circolo.

A Napoli l’innocenza la devi sempre dimostrare, non tanto in tribunale ma nella vita (o nella morte) di tutti i giorni.

Ma accanto a questo primato, se ne sta consolidando un altro: minorenni che vengono uccisi dalle forze dell’ordine mentre stanno commettendo una rapina, uno scippo, un’azione delittuosa o scappano ai controlli a bordo di un motorino.

Così maldestri da non calcolare il rischio di poter incappare in una vittima armata (poliziotto o carabiniere in borghese) o da non prevedere la vigilanza di un eventuale obiettivo da parte delle forze dell’ordine, o di incrociare una pattuglie di “falchi” in perlustrazione.

Poliziotti che sparano

Proprio in una pattuglia di falchi è incappato il diciassettenne Luigi Caiafa, ammazzato mentre nel cuore della città tentava di rapinare a bordo di uno scooter (alle 4 e mezzo di notte) tre amici all’interno di una Mercedes, mentre il suo compagno impugnava (pare) una pistola giocattolo.

Anche Ugo Russo, un ragazzo di 15 anni, è stato ammazzato da un carabiniere fuori servizio che aveva tentato di rapinare mentre era fermo in un’auto in un quartiere centrale. Impugnava una pistola giocattolo.

Qualche anno prima un ragazzino di 16 anni del rione Traiano è stato ammazzato per non essersi fermato a un posto di blocco. Da quell’episodio prende le mosse il film, Selfie, di Agostino Ferrente che racconta le reazioni di altri giovanissimi del quartiere tra il bisogno di onorare il ragazzo morto e al tempo stesso non farsi trascinare nel mondo attraente della malavita.

Come mai un giovane di 17 anni può trovarsi alle 4 e mezzo di notte a tentare una rapina per strada? Oltretutto questo ragazzo stava imparando il mestiere di pizzaiolo tramite una particolare misura che si chiama “messa alla prova”, una possibilità di recupero che in cambio di un impegno a completare gli studi (o ad imparare un mestiere) cancella i reati commessi dai minorenni entrati nel circuito penale. Quindi non era un ragazzo senza prospettive o di cui lo Stato si disinteressava.

E come mai un ragazzo di 15 anni si stava specializzando in rapine a due passi dai palazzi delle istituzioni?

Non si tratta di morti per caso, ma non è un caso che entrambi i ragazzi uccisi in un tentativo di rapina appartenessero a famiglie già coinvolte in attività delinquenziali, provenissero da determinati quartieri e avessero precedenti penali.

La periferia sociale

Anche in altre parti d’Italia  la delinquenza minorile si presenta  come un problema specifico delle grandi aree urbane, delle loro periferie e degli estesi hinterland metropolitani.

A Napoli però quello di periferia è un concetto non geografico ma sociale: è l’ultima grande città italiana ed europea a mantenere una estesa periferia al centro del suo stesso sistema urbano.

In Europa il paragone può essere fatto solo con Marsiglia. In altre città i minori sono esposti alla deprivazione culturale e sociale, alla vita illegale ma non immediatamente a quella criminale. La criminalità nella città partenopea vive spalla a spalla con il disagio minorile. Un numero così alto di minori coinvolti in attività mafiose e camorristiche non esiste altrove.

Se in altre grandi città italiane ed europee la questione minorile è anche espressione di una difficile integrazione di varie ondate migratorie, interne all’Italia ed esterne, a Napoli essa è una questione indigena, interna. Gli stranieri c’entrano poco.

Oggi l’uso dell’illegalità non risponde a un bisogno di sopravvivenza ma di riuscita sociale.  La violenza e il crimine si affermano come mezzi rapidi di ascesa, di successo, di carriera, di identità.

La mobilità sociale non è assicurata dalla scuola, dalla famiglia, dal lavoro, ma sempre più dalla violenza agita, dalla ferocia non mitigata. E se nelle altre città, le forme violente si esercitano anche da parte di ragazzi provenienti da famiglie borghesi, a Napoli invece c’è quasi il monopolio di atti violenti da parte di ragazzi di famiglie sottoproletarie. 

Il destino segnato

In altre città l’esperienza in istituti di pena minorili non si tramuta necessariamente in continuità delinquenziale al raggiungimento della maggiore età, ma a Napoli e provincia gran parte dei ragazzi che hanno commesso reati passano nelle carceri per adulti.

Una ricerca di Res Incorrupta dell’Università S. Orsola Benincasa,  per la commissione parlamentare antimafia ci dice che la maggior parte dei minorenni rei sono già noti alle forze dell’ordine o ai servizi sociali territoriali per evasione scolastica. Molti di loro neppure si iscrivono al primo anno di scuola superiore e faticano non poco a terminare le scuole medie inferiori.

La scuola nelle attuali condizioni non è attraente e su di essa non costruiscono un’ipotesi di vita e di lavoro. Le loro famiglie sono quasi sempre disgregate, conflittuali, con problemi di tossicodipendenza, di criminalità: i genitori sono ben più giovani rispetto alla media italiana e con più figli, hanno una scolarità molto bassa, le madri sono disoccupate e i padri hanno lavori saltuari o quasi sempre non professionali. L’acculturazione illegale e criminale comincia dalla famiglia.

Lo Stato con le sue azioni repressive  o di recupero (“messa alla prova”, perdono giudiziale, sospensione della pena) interviene troppo tardi, quando il percorso è già abbastanza segnato.

La questione minorile è una questione sociale ed educativa: affidarla ai magistrati vuol dire arrivare tardi e compromettere le buone cose che pure la legislazione in materia consente.

Questione di famiglia e rione

I minorenni delinquenti sono in linea di massima figli, fratelli o nipoti di pregiudicati. Come Ugo Russo e Luigi Caiafa. E ben il 41,6 per cento dei ragazzi, che come Luigi Caiafa hanno seguito un programma di reinserimento sociale, torna a delinquere da adulto appena finita l’esperienza di studio o di formazione lavorativa, sempre secondo i dati forniti dallo studio dell’università.

I dati ci dicono che è possibile prevedere in largo anticipo in quali quartieri, in quali rioni, in quali scuole (pochissimo frequentate), in quali famiglie, in quali classi di età si formeranno i futuri ospiti degli istituti di pena minorili e successivamente delle carceri per adulti.

Si può fare anche una previsione attendibile sui tassi di recidiva: tra quelli che saranno arrestati o fermati da minorenni (per furti, scippi, rapine, spaccio di droga, risse, possesso d’armi) almeno la metà finirà nelle carceri per adulti per gli stessi reati, aggiungendo ad essi l’omicidio e la partecipazione a un clan di camorra.

Tutto ciò non ha niente a che fare con il fatalismo, con i geni criminali nel sangue, ma con una reciprocità di influenza tra condizioni sociali, economiche, culturali (cioè tassi di istruzione e di opportunità legali) e carriere criminali.

Se le condizioni sociali in cui vivono e si formano migliaia e migliaia di persone non vengono affrontate, esse si riverseranno contro il resto della società; e le statistiche criminali sono il segno della loro vendetta.

L’influenza della famiglia si somma all’influenza del rione dove si nasce, del quartiere dove si vive, degli altri minori nelle stesse condizioni che si frequentano. C’è un’ordinarietà del delinquere, quasi una “banalità” del crimine. Le nuove leve criminali continuano a provenire (ieri come oggi) da specifichi posti, da ambienti familiari o di vicinato già in dimestichezza con l’economia illegale. 

I giovani di Napoli oggi sono criticati per i comportamenti disinvolti nella movida, per essere restii alle regole che la pandemia impone. Proprio come tanti loro coetanei in altre parti d’Italia. Ciò che fa diversa Napoli è che alcuni di essi possono morire per strada per uno scontro tra clan o morire per aver tentato con armi giocattolo di aprirsi la strada alla carriera criminale.

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