Precarietà e individualismi, la nostra società è stanca ma non trova alternative

La percezione e l’immaginario che circola nel paese su che cosa c’è di sbagliato nella società porta alla luce i tratti di un repertorio culturale condiviso, una narrazione collettiva attraverso cui una comunità diagnostica sé stessa. Le percentuali rivelano una gerarchia di significati morali che disegna i contorni di una percezione diffusa di crisi del legame sociale. In primo luogo, al vertice di questa piramide troviamo la preminenza dell’individualismo egoistico (36 per cento) quale male supremo: indica la consapevolezza di una crisi del vincolo solidaristico. Non si tratta semplicemente di un tratto psicologico, ma della percezione di un collasso della reciprocità generalizzata, principio fondativo di ogni coesione sociale. È il sintomo di un passaggio da una società basata su obbligazioni mutualistiche a una regolata da un contratto sociale impoverito, in cui l’altro è percepito principalmente come concorrente, non come cooperatore. Botte, controllo e minacce, i giovani giustificano la violenza sulle donne. L’urgenza è educativa Gli altri elementi I fattori di disagio successivi come la precarietà lavorativa (32 per cento) e la mancanza di riconoscimento del merito (26 per cento) forniscono la base materiale e morale di questo individualismo. Essi segnalano la rottura di un patto generazionale e meritocratico che prometteva sicurezza in cambio di impegno, progressione in cambio di capacità. La loro centralità rivela come l’ingiustizia sociale sia vissuta non solo come disparità di risorse, ma anche e, più profondamente, come violazione di un principio di equivalenza simbolica tra sforzo e riconoscimento. La coppia “volere tutto subito” (24 per cento) e basso impegno dei giovani (14 per cento) rappresenta una proiezione moralizzante della crisi strutturale. Il presentismo e la presunta scarsa dedizione non sono cause, bensì adattamenti culturali a un contesto di futuro dissolto (la precarietà) e di meritocrazia fallita. È la colpevolizzazione dell’effetto che trasforma un adattamento a condizioni oggettive in un vizio generazionale. La ricerca di sempre più profitti (21 per cento) e i troppi lacci all’impresa (6 per cento) mostrano un’ambivalenza fondamentale: si condanna l’etica della massimizzazione finanziaria, ma si resta legati a un immaginario di libertà economica tradizionale. È il segno di un dissenso confuso verso il capitalismo finanziarizzato, percepito come predatorio, ma senza un linguaggio alternativo consolidato e critico verso i meccanismi di fondo. In conclusione, la posizione relativamente bassa delle differenze di genere (11) e il dato sugli immigrati (16) sono altamente significativi: rivelano come, nel discorso pubblico dominante, le lotte per il riconoscimento (identità, pari dignità) siano subordinate alle rivendicazioni di redistribuzione (sicurezza, equità). L’immigrato, in particolare, funge da capro espiatorio parziale, una figura su cui canalizzare l’ansia per la perdita di sicurezza e identità, ma non la preoccupazione principale. I redditi? Fermi o in calo. La percezione economica che “blocca” gli italiani L’erosione dei legami La mappa delle percezioni delinea il profilo di una società che riflette sulla propria disgregazione morale. Il fulcro della diagnosi collettiva non è l’economia in sé, ma l’erosione dei legami di fiducia e reciprocità che l’economia dovrebbe sostenere, non distruggere. È il ritratto di un individualismo sofferto, non celebrato, che cerca cause morali per mali sistemici e trova, nel merito non riconosciuto e nella solidarietà evaporata, le parole per esprimere il proprio disagio. La percezione che hanno le persone della società contemporanea è quella di una realtà malata, in cui è presente un forte deficit di legittimazione e di fiducia. Il cuore della crisi percepita non si situa solo sulla crescita delle disuguaglianze, ma amplia lo sguardo alla più complessiva rottura del nesso simbolico tra impegno e ricompensa, tra contributo e riconoscimento, che sono il cemento invisibile di ogni ordine sociale. La narrazione collettiva, così, ci restituisce il ritratto di un malessere della modernità avanzata, in cui la disintegrazione dei legami sociali viene esperita e raccontata come una crisi morale, nella disperata ricerca di un nuovo principio di obbligazione reciproca che possa ridare senso e stabilità al vivere comune. È il ritratto di una società segnata dalla stanchezza, come direbbe il filosofo tedesco coreano Byung-Chul Han. Una società che mantiene una ambivalenza verso il capitalismo contemporaneo: la maggioranza ne condanna la dimensione finanziaria predatoria, ma non trova un immaginario alternativo al collasso del nesso simbolico tra impegno e riconoscimento. NOTA METODOLOGICA: Indagine Cawi, realizzata da Ipsos per il centro studi Legacoop, nel marzo 2025 su un campione di 800 italiani maggiorenni.