Eni «sapeva» che negoziare con la società nigeriana Malabu i diritti di sfruttamento del campo petrolifero nigeriano Opl 245 sarebbe stato un problema. Ma questo non ha «fermato» la multinazionale italiana dal chiudere quell'affare, portato a termine insieme ai sodali di Royal Dutch Shell, dai cui è nato il processo milanese nel quale si contesta una maxi tangente internazionale, la più alta mai pagata da una società italiana.

Una mazzetta da 1,09 miliardi di dollari che sarebbero finiti in parte a politici e pubblici ufficiali nigeriani, secondo i pm di Milano. Le due società hanno pagato complessivamente 1,3 miliardi di dollari nel 2011 per lo sviluppo e sfruttamento di quel campo: confrontarli con la tangente ipotizzata dalla procura dà il senso di quanto possa essere stato un affare in danno della Nigeria e dei nigeriani.

L'affondo finale dei pm milanesi agli imputati di questo processo, tra i quali spiccano l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, passa attraverso queste parole di Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto di Milano a capo del dipartimento di reati internazionali che insieme a Sergio Spadaro ha condotto l'inchiesta. È la giornata dedicata alle repliche dei pubblici ministeri dopo le arringhe difensive: un passaggio che serve all'accusa per riportare sul proprio terreno la palla dell'inchiesta spazzata in tribuna dai tanti legali delle difese, secondo le quali non si può assolutamente parlare di corruzione in questo caso.

Quell’indicazione «rimossa»

De Pasquale non si è sottratto al compito ed è anzi apparso molto genuino nel rimettere la palla in campo: grintoso ma con quelle venature di ironia leggera che lo contraddistinguono, in un’ora e mezza ha toccato ancora le zone grigie di quest'affare. Come la consapevolezza di Eni sulla reale proprietà della società Malabu, dietro alla quale era «pacifico» per i pm che ci fosse il potente Dan Etete, ex ministro nigeriano già con una condanna per ricettazione in Francia e uomo forte nel sistema delle tribù che governa, di fatto, la vita politica del paese africano. Etete non era certamente personaggio di specchiata moralità e per questo motivo, è la tesi del procuratore, il dirigente di Eni Roberto Casula (imputato) si era raccomandato, in una mail agli atti del processo, di rimuovere l'indicazione di Malabu dai contratti per la compravendita dei diritti di sfruttamento, facendo figurare come controparte solo il governo nonostante Opl 245 fosse di proprietà della società nigeriana in quel momento.

Governo che poi avrebbe preteso la sua parte, secondo l'imputato e teste chiave del processo Vincenzo Armanna, che ha sempre indicato alcuni politici nigeriani come i terminali di parte di quella massa di denaro. A questo proposito la procura è riuscita proprio in extremis a vedersi accogliere dai giudici un paio di atti che proverebbero l'interesse specifico del ministro della Giustizia nigeriano del tempo, Mohammed Bello Adoke, per la conclusione dell'affare e la sua vicinanza ad Alyiu Abubakar, il businessman che ha monetizzato metà della presunta tangente (520 milioni di dollari) che sarebbero stati utilizzati in parte per pagare i pubblici ufficiali.

I «suggerimenti» di Bisignani

Importante anche l'indicazione al collegio giudicante, che non dovrebbe fare una lettura parcellizzata della complessa vicenda che ruota intorno a questo affare, per evitare che ogni singolo passaggio perda di senso e rilevanza. Come gli incontri dell'allora a.d. Paolo Scaroni con il presidente nigeriano Goodluck Jonathan, che non sarebbero stati semplice cortesia istituzionale verso un capo di stato ma che andrebbero letti all'interno del complesso meccanismo per arrivare alla quadratura del cerchio. Per la difesa dell'attuale presidente del Milan, al contrario, il ruolo di Scaroni sarebbe stato stato marginale, con la semplice indicazione all'allora direttore generale Descalzi di un affare possibile suggerito da Luigi Bisignani, anch’esso imputato. «Guardate il casellario penale di Bisignani», già condannato in via definitiva per vari reati, ha ironizzato De Pasquale, per sottolineare l'opacità di certi «suggerimenti».

Sapere vedere nello specchio olandese

Il finale è stato tutto per il ruolo di Shell, che vede ben quattro ex dirigenti e funzionati indagati, due dei quali in forza alla multinazionale dopo aver militato tra le fila del servizio segreto esterno, l'MI 6. Una serie di mail agli atti del processo hanno fatto emergere la consapevolezza delle criticità di questo schema di acquisizione. Per le difese i pm hanno dato una lettura di queste mail attraverso uno «specchio olandese», ovvero deformante e quindi incapace di leggere la realtà delle cose. De Pasquale ha risposto citando il pittore fammingo Jan Van Eyck e il suo «Ritratto dei coniugi Arnolfini», un dipinto nel quale uno specchio convesso non deforma la realtà ma permette allo spettatore di guardare «cosa c'è dietro alle due figure». Il lato nascosto di ciò che appare. Quello che – dice De Pasquale riferendosi ai giudici - «bisogna saper vedere».

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