Quello che veniva considerato uno dei totem dell’antimafia più intransigente è stato spazzato via da una sentenza. Un verdetto di assoluzione che cancella un verdetto di condanna, il secondo grado che ribalta il primo e dice che la trattativa stato-mafia non è vicenda sostenibile in un’aula di giustizia, che non ci sono le prove che uomini delle istituzioni abbiano negoziato con i peggiori criminali della storia italiana e che solo patti e ricatti abbiano segnato la stagione delle stragi. Sconfessati in tutto e per tutto i giudici della Corte di assise, l’impianto accusatorio è stato demolito, troppa tortuosa la via dell’incolpazione con un reato difficilmente dimostrabile come la «minaccia a corpo politico e amministrativo dello stato». Tutti assolti gli imputati, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, i generali dei carabinieri Antonino Subranni e Mario Mori, il capitano Giuseppe De Donno.

Tutti assolti tranne Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina. Alla fine, l’unico colpevole del grande intrigo è un sicario di mafia che è ormai carne morta nei bracci del 41 bis. E con lui Antonino Cinà, il medico personale del capo dei capi, un altro della compagnia corleonese. Hanno minacciato e “trattato” da soli, fra di loro, dall’omicidio di Salvo Lima alle bombe ai Georgofili di Firenze.

Cosa dice la sentenza

È una sentenza che fa uscire da un gorgo Marcello Dell’Utri e con lui Silvio Berlusconi e tutti quegli apparati che hanno sostenuto gli ufficiali del vecchio Ros (il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri), che fa vacillare anche le certezze di quella parte di magistratura che per anni ha creduto alla commistione fra pezzi dello stato e i capi della Cupola.

La sentenza d’Appello mette sotto accusa la “linea” e un’intera filosofia giudiziaria che, fin dal principio, si è scontrata con chi ha sempre negato l’esistenza di un traffico indecente fra uomini in divisa e uomini d'onore. Questa è l’inchiesta che, più di altre dopo le stragi del 1992, ha portato grandi lacerazioni nella magistratura. La sentenza di Palermo ora acquieta mezza Italia, è rassicurante, in armonia con i tempi: lo stato non è traditore, non c’è mai stato l’abbraccio mortale con i boss, non c’è stata l’«interlocuzione illecita e illegittima» con i vertici di Cosa nostra con lo scopo «di interrompere la strategia stragista».

Mafia. Sempre solo mafia. E se il verdetto di condanna di primo grado era sembrato ai più sorprendente dopo la prima assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel 2018 – che processato separatamente, nel rito abbreviato, aveva fatto cadere uno dei pilastri accusatori – quello di secondo grado certifica che è sempre bene mantenere una certa distanza fra realtà giudiziaria e realtà storica.

Leggeremo le motivazioni della sentenza ma intanto non è stato riconosciuto il ruolo di Marcello Dell’Utri, l’inseparabile amico di Silvio Berlusconi che gli ha portato in dote i compari palermitani (prima i Bontate dell’aristocrazia mafiosa, poi gli emissari dei Corleonesi) nei mesi in cui nasceva il partito di Forza Italia di cui Dell’Utri è stato co-fondatore, partito che ha cambiato i destini del nostro paese con Berlusconi premier nel marzo del 1994.

Marcello Dell’Utri è stato uno dei personaggi centrali dell’ormai fu trattativa, il segretario tutto fare di Silvio, quello che secondo l’accusa «si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio di Cosa Nostra» in cambio di rassicurazioni. Una su tutte: l’attenuazione del regime carcerario per i boss rinchiusi al 41 bis. L’attenuazione in effetti c’è stata ma lui non c’entra niente.

Dialogo legittimato

E poi ci sono i carabinieri dei reparti di eccellenza investigativa di quell’epoca, il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, il primo a capo del Ros e poi del servizio segreto civile e il secondo suo inseparabile scudiero da un quarto di secolo. E con loro il generale Antonio Subranni. Tutti, dopo una ventina di anni, liberi dalla morsa del famigerato accordo. Scivolati lì dentro con l’incredibile mancata perquisizione del covo del capo dei capi Totò Riina in via Bernini il 15 gennaio del 1993, giorno della sua cattura dopo 24 anni e 7 mesi di latitanza indisturbata. Con la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Con gli incontri ravvicinati con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Passaggi ricostruiti dalla procura palermitana fra una bomba e l’altra, una ricerca di “coperture” politiche mai individuate.

Sul giudizio ha pesato decisamente l’assoluzione finale della Cassazione (è datata 2020) dell’ex ministro Mannino. La sua uscita di scena dal processo non poteva che portare a una “rivisitazione” del verdetto di primo grado, anche parzialmente. Se Calogero Mannino non si è attivato per salvarsi la pelle con gli alti ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri – come ha decretato la Suprema corte – come si sarebbe potuto condannare gli alti ufficiali dei carabinieri che avrebbero aperto una negoziazione con i Corleonesi nella persona di don Vito Ciancimino e su input dello stesso Calogero Mannino? Osservatori delle cose di giustizia palermitana alla vigilia della camera di consiglio dell'Appello ipotizzavano una sorta di sentenza “spezzatino”, che smembrava e poi ricomponeva e poi ancora smembrava la sentenza dei magistrati della corte di Assise.

Con la negazione della prima e della seconda trattativa portata avanti dagli ufficiali dei carabinieri (gli incontri con Ciancimino accertati e ammessi dagli stessi imputati e i misteri del covo di Riina, poco convincente la versione offerta da Mario Mori) e con il riconoscimento della terza trattativa che aveva come motore Marcello Dell’Utri. Lo “spezzatino” che tutti attendevano non c’è stato, la Corte d’appello ha ritenuto troppo fragile la tesi accusatoria e così ha affossato la prima decisione della Corte di assise.

Affossato perché il senatore Dell’Utri è stato assolto «per non avere commesso il fatto» e i generali del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri Subranni e Mori «perché il fatto non costituisce reato». Hanno fatto ma quel fare evidentemente era legittimo. Dichiarate prescritte le accuse contro Giovanni Brusca, il boia di Capaci. Assolto già in primo grado per falsa testimonianza l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (la procura non ha neanche presentato appello), mai arrivati a processo ministri e capi della polizia coinvolti nell’inchiesta che ci hanno lasciato un decennio fa, nessuna condanna né per Totò Riina né per il suo amico Bernardo Provenzano che sono morti in carcere fra il luglio del 2016 e il novembre del 2017.

Il “reo” è solo quel Bagarella che compirà ottant’anni il prossimo febbraio, un fantasma, uno che quando si agita prende a morsi gli agenti della polizia penitenziaria, un avanzo di quella che è stata la mafia del potere e del terrore di un quarto di secolo fa. A lui hanno scontato – misteri della giustizia italiana – un anno di condanna, da ventotto a ventisette.

Cosa ci consegna alla fine questa sentenza? Quello che già sapevamo. E cioè che quando parliamo di mafia non possiamo più affidarci – e con tutto il rispetto per la Corte d’appello e con tutto il rispetto per gli imputati assolti – soltanto ai bolli e ai giudici, è troppo riduttivo per spiegare la complessità della Sicilia nella stagione delle stragi. Troppo lontana la ricostruzione nelle aule di giustizia dalle ombre che trent’anni fa si allungavano su Palermo.

 

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