Tra le 1101 vittime innocenti delle mafie sono molti i nomi di politici, locali e nazionali, uccisi dalla criminalità organizzata a causa del loro impegno per la legalità. Le loro storie raccontano come il nostro paese sia stato condizionato dai clan che nella loro storia hanno dimostrato di non farsi problemi a eliminare alla radice ogni possibile problema
Tra i principali obiettivi della mafia vi è l’accumulazione di potere e autorevolezza per raggiungere uno degli elementi caratteristici delle organizzazioni criminali: il controllo del territorio. Ma in un paese democratico l’autorità spetta alle istituzioni dello stato che non possono delegare ad un antistato questa prerogativa. E per questo motivo le mafie, sin dal principio, si sono scontrate frontalmente con ogni forma di potere statale: dalla magistratura alle forze dell’ordine, passando inevitabilmente per la politica.
La prima vittima
È il 1° febbraio 1893, il treno che porta da termini imerese a Palermo è partito da poco quando due uomini fanno irruzione in una carrozza di prima classe. Si dirigono con decisione verso uno dei passeggeri e lo colpiscono rapidamente con ventisette coltellate. Il corpo senza vita viene gettato da un finestrino all’altezza di Trabia, a cinque chilometri dalla stazione di partenza.
La vittima è Emanuele Notarbartolo, nobile d’origine ed appassionato di politica, era stato sindaco di Palermo dal 1873 al 1876 quando diventò direttore del banco di Sicilia. È la prima vittima “illustre” di Cosa nostra, il primo politico colpito dalla criminalità organizzata per il suo impegno contro le mafie. Se da primo cittadino del capoluogo siciliano si era già distinto per il suo impegno nel contrasto ad ogni forma di criminalità, il movente di questo delitto va ricercato in quello che accadde poco prima del suo omicidio. Dopo lo scandalo che travolse la banca romana ed il governo Giolitti nel dicembre 1892, infatti, Notarbartolo aveva espresso la volontà rendere spontanee dichiarazioni alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta in merito alle malversazioni attorno al Banco di Sicilia. Un rischio troppo grande per le cosche che, vedendo minacciati i propri interessi, scelsero la violenza sfidando in modo diretto ed inequivocabile per la prima volta il potere statale.
Gli anni ‘80
Ma la vera sfida alle istituzioni le mafie la portarono vanti quasi un secolo dopo. Gli anni ’80 si macchiano si sangue sin dall’inizio. Il 6 gennaio 1980, in via della Libertà a Palermo, un sicario uccide il presidente democristiano della Regione Siciliana Piersanti Mattarella che, come suo solito nei giorni festivi, aveva concesso il giorno libero alla propria scorta per permettere agli agenti di trascorrere l’epifania con i propri cari. Un attacco frontale alla politica regionale e non solo: a preoccupare Cosa nostra, infatti, era stata l’apertura di Mattarella ad un’alleanza tra Dc e Pci, temuto dalla mafia per le sue battaglie sociali.
E infatti in quegli anni fu proprio il Partito Comunista a pagare a caro prezzo le proprie campagne per la legalità e l’uguaglianza soprattutto al sud. E non è un caso, per propria storia e ideologia gli uomini del partito comunista sono infatti più pronti ad esporsi. Già nei decenni precedenti questa tendenza era stata anticipata dalle violenze mafiose nei confronti di sindacalisti e attivisti con momenti drammatici come la strage di Portella della Ginestra in cui nel 1947 morirono 14 persone radunatesi per festeggiare la prima Festa dei Lavoratori dalla fine del fascismo. Ma il culmine della violenza si ebbe proprio nei primi anni ’80.
L’11 giugno 1980 la ‘ndrangheta uccide a Nicotera Giuseppe Valarioti, sindacalista trentenne e segretario del Pci locale che aveva osato opporsi al potere criminale della famiglia Pesce. Passano undici giorni e lo stesso destino tocca a Giannino Losardo, dirigente comunista e già sindaco della cittadina tirrenica “colpevole” di aver ostacolato l’ascesa del boss Francesco Muto che voleva espandere il suo business dal mercato ittico locale a tutte le attività economiche del cosentino.
Ma il culmine lo si raggiunge due anni più tardi. Il 30 aprile 1982, a Palermo, Cosa nostra uccide l’onorevole Pio La Torre ed il suo amico e compagno di partito Rosario di Salvo. Ai funerali dei due, in piazza Politeama a Palermo, parteciparono oltre 100mila persone, nonché uomini delle istituzioni, e l'orazione funebre fu tenuta da Enrico Berlinguer, che denunciò immediatamente la matrice mafiosa dell'attentato. Fu la reazione, violenta ma non imprevedibile, delle cosche alla proposta di legge presentata dall’onorevole comunista per combattere le organizzazioni mafiose. Quella stessa legge per la cui approvazione non bastò l’omicidio del suo ideatore ma fu necessario un altro omicidio eccellente, quello del Generale Calo Alberto dalla Chiesa avvenuto il 3 settembre di quello stesso anno. Una legge fondamentale ed innovativa che, ancora oggi, rappresenta l’ossatura normativa del contrasto alle organizzazioni mafiose.
La storia recente
Ma le mafie non hanno mai smesso di uccidere uomini dello stato. Sono storia recente gli omicidi di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore ucciso a Pollica la sera del 5 settembre 2010, e di Peppino Basile, consigliere di opposizione ad Ugento ucciso a coltellate nel giugno 2008. Il primo colpito dai clan perché determinato a denunciare e smantellare un traffico di droga che in quei mesi stava sempre più prendendo piede nel suo comune. Il secondo per aver intralciato, con la sua attività politica, gli interessi mafiosi per lo smaltimento di rifiuti radioattivi dentro la discarica di Burgesi, e su un centro di stoccaggio rifiuti realizzato con soldi pubblici, vandalizzato e mai utilizzato.
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