Come non detto. Non c’era Roger Federer in tribuna per salutare il grande addio. Nessuna conferenza stampa ulteriore per comunicazioni extra. Di extra-terrestre, semmai, c’è Rafael Nadal, l’unico tennista al mondo che abbia perso tre partite su centoquindici in un torneo dello Slam rispetto a cui, se Boris Becker a Wimbledon diceva di giocare nel giardino di casa, bisognerà inventare nuovi termini riferiti alla padronanza universale. Nadal ha vinto il quattordicesimo Roland Garros in quattordici finali. E forse sarebbero già quindici, se nel 2004 un medico non avesse consigliato a quel ragazzetto di Maiorca di riposarsi un po’ per via di un guaio congenito al piede.

Della finale non è davvero opportuno rilevare alcunché, se non che Casper Ruud, tennista figlio di tennista norvegese, un gran bel giocatore da terra rossa, si è presentato al match più importante della vita come «fiero studente della Rafa Nadal Academy di Manacor», circostanza peraltro veritiera. Che è un po’ come, per lo studente della quarta ginnasio, provare a vincere una gara di latino contro il professore. 6-3 6-3 6-0, più che un punteggio, è la sintesi in cifre di una scampagnata.

Il fenomenale Rafa

Cosa che il torneo di Nadal non è stata: sorteggiato nella parte più affollata di campioni del tabellone, il fenomenale Rafa si era già fatto trascinare al quinto set dall’allievo (a proposito) di suo zio Toni, Felix Auger-Aliassime. Dopodiché, nei quarti di finale, per quattro ore e fischia di combattimento notturno lui e il – quasi ex – numero uno del mondo Novak Djokovic si sono presi a schiaffoni, fisici ed etici. Con lo stadio interamente, talora sguaiatamente schierato a favore di Nadal, ne è uscita una vittoria in quattro set che potevano essere cinque. Se non, addirittura, una sconfitta.

Ma il pubblico ha scelto il suo campione, Nadal, perché si è vaccinato e dice «merci» al raccattapalle quando chiede una pallina da servire; non Novak, presuntuoso antivaccinista, ritenuto ipocrita anche nelle manifestazioni di sportività e figlio di una patria antipatica, la Serbia - forse perché riesce a essere più sciovinista della Francia.

Una volta tanto, Djokovic non si è nutrito dell’avversione del tifo per farne carburante per i suoi colpi molleggiati, anzi: ha ammesso di essersi sentito pure un po’ ferito, da quell’avversione ruomorosa e feroce. In semifinale, poi, Nadal ha affrontato Alex Zverev.

Bravo, bravissimo. Ma che, per essere un campione a percentuale piena e senza l’asterisco, dovrebbe saper fare ciò che ai due grandi vecchi del tennis continua a riuscire con costanza: giocare al meglio quando conta, e non viceversa. Nadal ha tirato fuori il primo passante vincente quando ha dovuto salvare un set-point, Zverev ha messo a segno secchiate di ace e servizi vincenti ma, al momento di chiudere il set, si è incastrato in uno, due, tre doppi falli, con la tremarella del ragazzino del circolo. E poi certo, c’è il caso. Come quello che, dopo tre ore e neanche due set conclusi, ha fatto appoggiare male il piede al tedesco: legamenti saltati, addio partita e, forse, stagione.

Il dolore al piede

Ecco, la zoppia: il Roland Garros di Rafa è stato accompagnato a braccetto da un serio dolore al piede sinistro, figlio del malanno cronico e capace di renderlo claudicante a Roma. Nelle due settimane di Slam parigino, lo spagnolo ha gettato nell’etere frasi sibilline e preoccupanti, facendo riferimento a un possibile addio dopo questo torneo, addirittura alla impossibilità di tornare alla vita normale dopo aver chiesto più del lecito a una struttura anatomica che conta qualche centinaio di migliaia di chilometri di corse e ripartenze. Invece, nulla: dopo aver messo le mani sul ventiduesimo titolo dello Slam - due in più rispetto a Federer e Djokovic - quello che il mondo attendeva con apprensione come il discorso del probabile congedo si è risolto in uno speech di ordinario ringraziamento in un patois franco-spagnolo. Un po’ come Pete Sampras agli Us Open 2002, vinti da “dead man walking” – tale era il suo soprannome, tanto era consumato dal tennis – si pensava che davvero il piede di Rafa avesse preso di imperio una decisione  che tutti i campioni faticano a concepire e a far uscire dai denti. Per sua fortuna, no: a 36 anni (compiuti il giorno della semifinale) un gaudente Nadal ha dato appuntamento al prossimo anno, per un’altra edizione del Ro-Nadal Garros.

Da nicchia per iperappassionati talora pedanti, il tennis in Italia si è (ri)fatto sport nazionale, come è stato per Panatta e soci, grazie ai successi dei qui assenti o acciaccati Berrettini e Sinner e il trionfo di Nadal rinfocolerà una godibilissima competizione trasversale, tra accreditati e selezionati analisti della società, per definire il ruolo di più grande di tutti i tempi. Qualcuno sbandiererà la superiorità morale e quindi, ça va sans dire, tecnica dello spagnolo, con l’inattaccabile argomento della residenza fiscale non  da fuggitivo. Altri, con eguale forza di convinzione, imporranno l’insindacabile giudizio del beau geste per sostenere argomenti in favore di Federer. Ecco: su Djokovic, qui in occidente, nessuno si sperticherà in esercizi di stile per dimostrarne la primazia.

Anche se resta colui che, facendo tutti i conti del tennis e non quelli di comodo o di cui si ha conoscenza, non solo si è preso il mal di pancia di mettersi alla rincorsa dei due più grandi. Ma è pure passato loro innanzi, anche se oggi si direbbe il contrario.

© Riproduzione riservata