Una mattina con i carcerati che frequentano il corso di Scienze della comunicazione dell’Università di Tor Vergata. Raccontano le condizioni di detenzione e la rabbia di fronte alle promesse dei politici che puntualmente non vengono mantenute. «Tanto chi chiede conto delle cose che dicono?»
Quindici minuti. È il tempo oltre il quale papa Francesco non poteva spostarsi negli ultimi giorni della sua vita. Un limite giustificato dalle condizioni cliniche, un dettaglio che gli ha vietato di incontrare per l'ultima volta i detenuti di Rebibbia, il carcere romano dove il Pontefice aveva aperto la porta santa, lo scorso dicembre. Voleva salutarli come è riuscito a fare con i reclusi di Regina Coeli, l'altro istituto di pena della città. «Siamo comunque contenti che ci abbia pensato negli ultimi giorni della sua vita», racconta la direttrice, Teresa Mascolo. Il particolare della visita sfumata è stato raccontato dai vertici del carcere durante un incontro tra i detenuti e i giornalisti.
Qui dentro, tra celle, blindo e grate, la fede è una speranza, a volte l'unica, e il papa un esempio perché «a differenza di politica e stampa che, in questo inferno, non ci vogliono mettere piede, si è occupato di noi», dice un recluso. L'incontro inizia a metà mattinata. Dietro i banchi con gli altri detenuti arriva poco prima dell’inizio Gianni Alemanno, l'ex sindaco di Roma, in carcere dallo scorso dicembre dopo la revoca dei servizi sociali per aver violato le prescrizioni imposte. In seconda fila c'è anche Giovanni Castellucci, l'ex ad di Autostrade, condannato a sei anni di detenzione per la strage del 28 luglio del 2013 quando un bus precipitò dal viadotto dell'Acqualonga nella zona di Monteforte Irpino, ad Avellino, causando la morte di 40 persone.
Lavoro e recidiva
Alcuni dei presenti frequentano il corso di scienze della Comunicazione dell'Università di Tor Vergata che, insieme al Cnel, ha promosso questo confronto. Si inizia con brevi interventi dei giornalisti, il mea culpa per una categoria che vivacchia tra copia incolla, notizie censurate, indagati già colpevoli e la morale che si sostituisce al diritto. Poi tocca ai detenuti che squadernano senza troppa retorica i problemi del carcere da un osservatorio, il reparto G8, che è un modello a Rebibbia. «Ci sono qui dentro persone ultraottantenni. La gente muore quasi ogni giorno dentro una cella, ma nessuno se ne accorge, come se non esistessimo», racconta il primo detenuto. Il carcere è un tema stagionale, un articolo a Pasqua, uno a Natale e l'altro a Ferragosto.
«Dovremmo parlare di recidive, di come si abbattono, di quanto sia importante uscire da qui dentro diversi. Bisogna scegliere tra la sicurezza e la cultura, se c'è lavoro e formazione noi siamo una risorsa o altrimenti continueremo a essere dei dimenticati», dice un altro ospite di Rebibbia che dietro le sbarre si è laureato in Giurisprudenza. La recidiva, lo dicono tutte le statistiche, si abbatte con la formazione e l'inserimento lavorativo, meno recidiva significa più sicurezza, ma il carcere è usato come lavatoio di ogni male. Negli ultimi due anni, con la destra al governo, sono aumentati i reati, aggravate le pene ed elevato a sistema il modello panpenalistico: carcere e manganello. L'ultimo capo del Dap, Giovanni Russo, dimissionario dal dicembre scorso e mai sostituito dal governo, aveva promesso in un anno l'aumento dei detenuti al lavoro, è rimasta una delle tante promesse mai mantenute.
«Tanto chi chiede conto delle cose che dicono? Quando il ministro dice “faremo carceri nuove” nessuno gli dice che il reparto g10 dovevano consegnarlo anni fa ed è ancora in costruzione, che mentre costruisci nuovi istituti, intanto, aumenta il numero dei reclusi ed è tutto inutile. Voi giornalisti dovete chiedere conto», è il parere di un altro detenuto che punta l’indice contro le interviste accomodanti nelle quali il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, può raccontare come formidabile la sua disastrosa gestione dell’universo giustizia. I suicidi fissano ogni anno un nuovo record, il sovraffollamento è alle stelle con oltre 60 mila detenuti.
Alemanno: «Peggio di 40 anni fa»
Tra loro c'è chi ha superato gli 80 anni di età. «Leggetela voi, leggetela voi», dice un detenuto mentre consegna ad Alessandro Barbano, che modera l’incontro, una lettera. È rivolta al padre spirituale, parla di peccati e perdono, parla della libertà smarrita e di quello che verrà. Si emoziona mentre le sue parole risuonano nell’aula Meta, si nasconde il volto tra le mani, ha 83 anni ed è ancora lì.
Alemanno interviene per denunciare il buco nero del carcere dove tutto si perde, dove tutto diventa inaccessibile e ignoto. «Sono qui per la seconda volta, negli anni ottanta fui arrestato per un reato politico. Eravamo in quattro in cella, ora siamo sei. La situazione è peggiorata. Se salite due piani insieme a me ed entrate in una cella sembra di tornare all’ottocento», dice. Eppure nella recente festa della penitenziaria, in piazza del Popolo, c’era un modellino di cella da 10 metri quadrati per due ospiti. I modellini per cancellare la realtà.
«Avevo una visita l'altro giorno, niente di grave, ma la scorta non si è presentata, c'è una questione di cure negate di cui nessuno sembra importarsene più di tanto», conclude Alemanno. Ha ragione, la sanità, le cure, i farmaci e il cibo restano questioni irrisolte che aumentano il disagio.
Gli interventi si susseguono, c’è chi ricorda le responsabilità dei partiti anche di sinistra nell’aver trasformato il carcere in un luogo dimenticato, chi non intravede nulla di buono all’orizzonte: «Cosa vuoi pensare quando un sottosegretario (Andrea Delmastro Delle Vedove, ndr) sembra goda pensando all’aria che manca ai detenuti nell’auto», dice.
Le due ore di confronto volano via veloci, tra gli ultimi interventi quello di Gabriele Bianchi, condannato a 28 anni, il fratello all’ergastolo, nel processo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il ventunenne ucciso in un pestaggio a Colleferro in provincia di Roma il 6 settembre 2020. Ribadisce quanto detto in aula, racconta e chiede ascolto, ma non è il luogo per le interviste, vanno autorizzate, ribadisce la direttrice. Il tempo del confronto è finito. Un agente urla “Aria”, dalle celle escono i detenuti, attraversiamo il corridoio, ritiriamo gli effetti personali e il cellulare. A un passo dall'uscita beviamo il caffè, si chiama Galeotto, all’interno dell’istituto c’è la torrefazione dove lavorano nove detenuti. Pochi metri prima di salutare Rebibbia incrociamo l’ultima scena che racconta il carcere. «Vieni di qua, papà è di qua», dice una mamma afferrando la figlia piccola per mano. È l’ora del colloquio.
© Riproduzione riservata