Nel campo di via Salone il tempo è fermo. All’ingresso, due vigili siedono annoiati in una volante. È un posto lontano da tutto, nella periferia est di Roma. A giugno fa già caldo nei container, ad agosto è invivibile. «Non c’è nulla. Per andare in città dobbiamo prendere il treno, ma d’estate non passa mai», dice Aisa Husovic. Ventitré anni e due figli da crescere, si è ritrovata al punto di partenza dopo che il comune di Guidonia, alle porte di Roma, ha sgomberato l’insediamento di via Albuccione, dove vivevano diverse comunità Rom.

«Quando sono tornata a Salone, ero depressa. Mi sono ricordata di quando ero bambina e vivevo qui. Non avrei mai voluto che i miei figli vivessero quello che ho vissuto io», racconta Aisa, mentre tiene in braccio Tommaso, il più piccolo dei due, nella loro casa, l’unico container disponibile che hanno trovato al loro ritorno. Di fronte, i genitori e i fratelli stanno completando le loro abitazioni. «Non puoi neanche far giocare i bambini all’aperto. Ci sono in continuazione cose che bruciano, gente che si ubriaca», dice.

I roghi, l’immondizia e una convivenza forzata con altre centinaia di persone sconosciute, sono solo alcune delle problematiche che scandiscono la vita monotona dentro il campo. Salone, in base al progetto del comune di Roma, dovrebbe essere superato entro la fine del 2026. Aisa ha qui la residenza, ma per un cortocircuito burocratico non risulta beneficiaria del progetto di superamento del campo.

Discriminazione

Non c’erano altre opzioni. Dopo lo sgombero a Guidonia nell’agosto 2024, sono stati costretti a tornare a via di Salone. In cambio il comune ha promesso 500 euro a persona ma, fanno notare le famiglie, non bastano nemmeno per la caparra di un affitto. «Che ci faccio con quei soldi? Non li ho accettati e, comunque, senza documenti non potevo nemmeno riceverli».

Aisa, di fronte alla minaccia di sgombero dei terreni, è andata in una casa vuota, sequestrata alla criminalità organizzata. Ma anche lì le autorità l’hanno sfrattata, uno sgombero che lei definisce «su base etnica». Appena tornata a Salone, è riuscita a iscrivere il primo figlio Santiago a scuola e l’anno prossimo inizierà la primaria.

Aisa è nata e cresciuta a Roma, ma non è cittadina italiana. Secondo il permesso di soggiorno, ora scaduto, è bosniaca, ma in realtà non ha cittadinanza. Il padre è cittadino bosniaco, la madre è nata a Roma ma soltanto qualche anno fa, a quasi 50 anni, ha ricevuto il riconoscimento dell’apolidia.

«Se passasse il referendum sulla cittadinanza, le persone che sono qui nel campo avrebbero la metà dei problemi. Tagliare la residenza continuativa da dieci anni a cinque, è un gran passo avanti», dice Nedzad, fratello di Aisa. Però a Salone nessuno parla del referendum, «è un discorso che passa in secondo piano, rispetto alla situazione».

Nedzad ha 33 anni e lavora come operatore legale. È nato nell’ospedale romano di Villa Irma e nel 1994 la sua famiglia si è spostata al campo del Casilino 900, «a causa degli sgomberi», racconta. Vivevano all’interno del parco di Centocelle, in tutto più di 300 famiglie: «Era un villaggio di case prefabbricate, non erano baracche», precisa Nedzad, «anche se stavo in un campo Rom vivevo il quartiere. Sono cresciuto in comitiva». E con accento romano dice: «Io sono italiano, anzi di Roma, prima ancora sono di Centocelle».

Nedzad è nato e cresciuto in Italia, ma non ha nessuna cittadinanza. Dopo la terza media, avrebbe voluto frequentare le superiori, ma senza permesso di soggiorno non era possibile. «Non sapevo di poter fare richiesta a 18 anni. Non ci è arrivata nessuna lettera», spiega. Per lui è un’altra «discriminazione su base etnica».

C’è un ricordo vivido: «Avevo 18 anni durante il periodo degli sgomberi della giunta Alemanno. A Casilino 900 hanno caricato tutte le famiglie su un autobus. Abbiamo passato un’intera giornata dentro l’ufficio immigrazione, hanno schedato tutti». La Questura ha inoltrato una richiesta di protezione internazionale, per lui che era cresciuto a Centocelle e non era mai uscito dall’Italia.

Nedzad, secondo di dieci figli, non ha potuto acquisire nemmeno la cittadinanza bosniaca per superato limite di età. «Sono stato rimbalzato per anni dall’Italia e dalla Bosnia. Giocavano con la mia vita», dice con rabbia. L’anno scorso è riuscito a ottenere l’apolidia e per la prima volta, con un titolo di viaggio, è uscito dall’Italia.

Gli ostacoli

«Molta della documentazione richiesta per la domanda di cittadinanza è irreperibile», precisa Jessica Todaro Bellinati, attivista sindacale di base, di famiglia sinta. Gran parte delle comunità Rom e Sinti è arrivata in Italia dopo le guerre dei Balcani e scappando dal conflitto ha perso traccia di molti documenti, che servirebbero per accedere alla cittadinanza.

A questo si sommano problemi di reddito e residenza per chi vive sotto continue minacce di sgombero. Anche se si riesce a ottenere la cittadinanza, «sulla carta si hanno gli stessi diritti degli italiani», dice Todaro, «ma le condizioni di vita rimangono legate a una discriminazione etnica da cui non è facile uscire. Discriminazione e razzismo esistono a prescindere dal documento che si ha in tasca».

Todaro si è candidata alle elezioni europee con Alleanza Verdi e Sinistra. «Volevamo essere per la prima volta dall’altro lato: portare la voce delle comunità a cui appartengo, che solitamente devono chiedere alla politica». Quella stessa politica che ha sostenuto a parole lo ius scholae, che per Todaro non è sufficiente: «C’è molta dispersione scolastica. Legare un diritto all’educazione scolastica è escludente per chi ha difficoltà di accesso all’istruzione». In Italia, secondo i dati Openpolis, la percentuale di abbandono scolastico tra gli stranieri è del 26,4 per cento, contro il 10,5 per cento degli italiani.

«Ho iscritto Santiago a scuola fino al 30 giugno. Cosa fa in questo posto?», dice Aisa indicando l’area desolata del campo. «Tutti i giorni sono uguali, siamo in attesa di una qualche comunicazione». Cosa vuol dire essere di origine Rom?, chiede Nedzad. «Per l’istituzione significa vivere nei campi. Così la cultura muore, viene schiacciata, e noi privati dell’identità».

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