L’8 e 9 giugno 2025 si voterà anche per decidere se dimezzare da dieci a cinque anni il requisito di residenza per ottenere la cittadinanza italiana. Al di là della propaganda, della retorica e della xenofobia sotto mentite spoglie la scelta tocca in profondità il sistema scolastico italiano, soprattutto una realtà silenziosa che sfugge alle cronache: i Cpia, i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. Sono loro, ogni giorno, a fare scuola di cittadinanza. Senza telecamere.

Dal 2014 i Cpia fanno parte dell’ordinamento scolastico, ma restano trattati come un corpo estraneo. A Ferrara si fa lezione nei seminterrati, nei centri anziani, a volte nei locali messi a disposizione da parrocchie e associazioni. Marzia Marchi, insegnante e consigliera comunale a Ferrara, racconta: «Siamo la cenerentola della scuola. Eppure gestiamo flussi continui di iscrizioni. I posti per l’esame B1 si esauriscono in due ore, nonostante siano a pagamento. La domanda è altissima, la risposta istituzionale assente».

I Cpia non sono autorizzati a certificare direttamente il livello linguistico necessario alla cittadinanza. «Dobbiamo stipulare convenzioni con le università per stranieri, che fissano le sessioni, impongono costi, dilatano i tempi», spiega Marchi. Il percorso si trasforma in una corsa a ostacoli, in cui non conta solo il merito ma la resistenza.

Eppure questi centri tengono insieme i pezzi di un Paese che si spaccherebbe senza. Bruno Lai, professore per il percorso di inserimento al Cpia di Cagliari, racconta: «Gli adulti sono motivatissimi, assetati di conoscenza. Spesso sono laureati, professionisti nei loro Paesi. Vengono per prendersi un titolo che permetta loro di vivere dignitosamente, di lavorare, di non restare sommersi: fanno le verifiche come se fosse un concorso pubblico. Ho avuto in aula psicologi e ingegneri».

Dal Cpia di Lecco arrivano voci nitide. Anny Harrison, in Italia da 34 anni, paga le tasse, ha cresciuto figli italiani. Eppure non può partecipare ai concorsi pubblici. «Vorrei scegliere chi prende le decisioni che riguardano la mia vita. Prima, i miei figli non potevano nemmeno andare all’estero con la scuola: non avevano la cittadinanza. Una privazione che li ha segnati».

Ibrahim, senegalese, dice: «Voglio passare la mia vita qui. Ma senza cittadinanza non posso farlo da cittadino». Mohamed Qasim sogna di entrare in polizia. È impossibile: non ha il passaporto italiano. Salwa Sherif ha insegnato all’università in Russia, vive in Italia da otto anni. «Qui ho tutti i doveri. Ma non tutti i diritti. Eppure questa è casa mia».

Sono voci comuni nei Cpia: da Katia, ucraina, a Naima, marocchina, da Weston Martins della Repubblica Dominicana a Celeste del Perù. Ognuno racconta lo stesso schema: si studia, si lavora, si paga, si cresce. Ma si resta esclusi.

Riconoscere la realtà

Secondo i dati ufficiali, sono 2,5 milioni le persone legalmente residenti che verrebbero interessate dal cambiamento proposto dal quesito. Molti di loro hanno figli nati o cresciuti in Italia, che frequentano le scuole pubbliche ma non possono accedere alle stesse opportunità dei compagni. La Flc-Cgil ricorda che oggi ci sono 900mila minori senza cittadinanza nelle scuole statali. La riduzione degli anni di residenza richiesta potrebbe semplificare anche per loro l’accesso alla cittadinanza: basta che un genitore la ottenga. Un passaggio burocratico che diventa una conquista politica.

«Si tratta di cittadini a tutti gli effetti – ci dice Marchi – molti parlano meglio il dialetto locale di me. Sono già italiani. L’unica cosa che manca è il riconoscimento».

L’aula dei Cpia è una mappa del mondo: studenti dall’Africa occidentale, dall’Asia, dalla Cina, dai Balcani. «Sono mondi diversissimi – spiega Marchi – alcuni sono laureati, altri hanno un’istruzione interrotta, molti sono minori stranieri non accompagnati. A scuola imparano la lingua e completano l’obbligo scolastico. In silenzio».

L’Italia che si racconta sovrana si regge sull’Italia sommersa che studia e lavora. E l’idea che queste persone possano avere accesso ai diritti politici, che possano votare, partecipare, contribuire alle decisioni, genera paura. «La cittadinanza fa paura – dice Marchi – perché dare i diritti significa restituire potere. Finché restano invisibili, non contano». Bruno Lai aggiunge: «I nostri studenti stranieri a volte vanno meglio di quelli italiani. Perché hanno fame di sapere. Perché sanno quanto vale un titolo».

Il referendum dell’8 e 9 giugno non riguarda un’idea futura di Paese, ma il riconoscimento di una realtà già in atto. Una cittadinanza dimezzata, che oggi esclude milioni di persone, potrebbe essere finalmente intera.

Chi si oppone continua a parlare di confini, sicurezza, invasioni. Ma dentro i Cpia non ci sono minacce. Ci sono alunni che vogliono imparare. Cittadini che vogliono esserlo per davvero. È l’Italia che studia, lavora, cresce figli e vuole un futuro. L’Italia che abita le nostre scuole e le nostre città. L’Italia che ha già messo radici. E che adesso chiede di essere riconosciuta.

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