L’assassinio della dottoressa Barbara Capovani, psichiatra e madre di tre figli, fa crescere un dolore amaro che si mescola all’incapacità di comprendere come questo sia stato possibile. Un suo ex paziente di 35 anni è stato arrestato e la domanda che ci allarma e che vale per questo e per i tanti tragici eventi che colpiscono medici e familiari di malati psichiatrici è sempre la medesima: come si può aiutare chi soffre e allo stesso tempo evitare simili tragedie?

L’uomo accusato del brutale assassinio era libero. Libero di muoversi, di programmare e di agire. Tuttavia, come riportato dalla stampa, la dottoressa aveva scritto nelle sue relazioni che era un paziente con gravi disturbi psichiatrici e potenzialmente pericoloso. Scrivo questo perché è necessario inquadrare questi elementi nella legislazione vigente.

Temo pochi, oltre agli addetti ai lavori, ricordino che la legge che regola i trattamenti sanitari obbligatori (Tso), la n. 833 del 1978, all’articolo 34 recita espressamente: «Il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le  circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere».

Una buona legge. Una legge che, grazie al professore Franco Basaglia, ha portato alla chiusura dei manicomi e alla psichiatria moderna. Tuttavia, rileggendo il comma dell’articolo, si ha la sensazione che manchi una frase che è nel nostro immaginario collettivo: «L’essere pericoloso a sé o agli altri».

Questo stato non è espressamente presente tra quelli che possono portare a un Tso. La pericolosità che un paziente può rappresentare per sé stesso e per gli altri, anche se valutabile e valutata, sembra non rappresentare un requisito da tenere in considerazione.

«Pericoloso a sé o agli altri»

Proviamo a fare un passo indietro. Fino al 1978 era in vigore la legge n. 26 del 1904 che su questo tema recitava: «Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi».

L’insieme di queste frasi mette i brividi. Si comprende la giusta volontà di andare oltre la legge del 1904 che riteneva «l’essere pericolosi a sé o agli altri» il caposaldo per definire un ricovero coatto. La si può comprendere considerando il rischio di estrema soggettività di alcune valutazioni del passato e l’abuso che forse e purtroppo se ne è fatto.

L’essere ritenuto «pericoloso a sé o agli altri» poteva, come solo elemento e in assenza di definiti sintomi psichiatrici, portare anche a una «detenzione forzata» in quei luoghi di dolore che erano i manicomi con fine pena mai.

Oggi, con una psichiatria che ha superato i fantasmi di un passato “medievale” e rappresenta una disciplina scientifica del XXI secolo, e in presenza di un quadro legislativo che pone il benessere del malato psichiatrico al centro, è forse giunto il tempo per una nuova riflessione sul tema del «pericolo per sé e per gli altri» che un paziente può rappresentare.

Cosa fare

Proviamo a immaginare i tanti psichiatri e psicologi che lavorano a contatto con pazienti che possono essere potenzialmente pericolosi. La missione che loro hanno e sentono di avere e di migliorare il benessere del paziente e un suo inserimento in famiglia e nella società.

Tuttavia, il loro numero, come il numero degli infermieri, è inferiore a quello che dovrebbe essere. Così come sono insufficienti in numero e dotazioni le strutture territoriali, di degenza e di riabilitazioni. Come Italia teniamo salda da decenni la parte più bassa della classifica europea per le spese dedicate alla salute mentale. Tutto questo lo sappiamo e lo sentiamo ripetere.

Per iniziare ad agire, tuttavia, c’è una strada che richiederebbe poco tempo e niente soldi. Riconsiderare le norme vigenti. Farlo lasciando al centro della cura psichiatrica il bene primo del paziente ma, riconoscendo la pericolosità per sé e per gli altri come elemento clinico/diagnostico che possa portare a un trattamento sanitario obbligatorio. Soprattutto per quei pazienti che in passato hanno già procurato del male a sé stessi o ad altri, come nel caso dell’uomo arrestato.

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