Il 28 ottobre del 2015 il barcone in cui Rezwana viaggiava con la sua famiglia affondò nel braccio di mare che separa la Turchia dall'isola di Lesbo. Da quel momento parte l'odissea per il riconoscimento della protezione internazionale: la ottiene in Grecia e riesce quindi a raggiunge la sua famiglia in Svezia. Al compimento dei 18 anni, le autorità svedesi hanno deciso di rimandarla in Grecia, il primo paese di arrivo. Per la burocrazia, la sua vicenda era una pratica come le altre. Rezwana è tornata in Grecia a febbraio del 2020, poche settimane prima dell'inizio della pandemia del secolo. Sola, di nuovo
La prima volta che ci siamo incontrate di persona e abbiamo finalmente potuto parlare con tranquillità, sedute nella sua stanza, nella casa dove era stata accolta ad Atene, ad un certo punto Rezwana si è alzata e da un piccolo portagioielli ha preso due anelli d'oro. Uno sembrava una fede nuziale, l’altro aveva la forma di un fiocco, con una pietra blu nel centro.
Li ha indossati e ha iniziato a raccontare: «I miei genitori avevano venduto le loro fedi per poter finire di costruire la casa, la stessa casa che poi vendettero per racimolare i soldi per venire in Europa. Mio padre, tempo dopo, comprò due nuovi anelli e un braccialetto. Quando eravamo in Turchia, prima di partire per la Grecia, lei si mise i gioielli ma gli anelli faticavano a entrarle perché le dita le si erano un po’ ingrossate. Allora con un fazzoletto di tela fece un sacchettino annodandolo velocemente e li mise lì dentro; poi me lo fissò alla canottiera. Ho conservato quel sacchettino senza mai aprirlo, fino a due anni fa. Ho aspettato così tanto tempo perché non volevo disfare i nodi che mia madre aveva fatto con le sue mani. Per me erano sacri».
Quegli anelli erano l’unica cosa che le rimaneva di sua madre. Era agosto del 2021 ed erano passati sei anni da quando sua madre, suo padre, le sue sorelle di 11 anni e 14 mesi, e suo fratello di 5 erano finiti tra i dispersi di uno dei peggiori naufragi della mal chiamata crisi dei rifugiati. Accadde il 28 ottobre del 2015. Il barcone in cui Rezwana viaggiava con la sua famiglia affondò nel braccio di mare che separa la Turchia dall'isola di Lesbo. Il mondo si era già asciugato le lacrime versate dopo la pubblicazione dell'immagine del piccolo Alan Kurdi, il bimbo siriano il cui corpo fu ritrovato sulla spiaggia di Bodrum, dopo che la sua famiglia aveva tentato di attraversare il mare/frontiera.
Rezwana aveva 13 anni nel 2015 e si ritrovò sola, in un paese sconosciuto con una lingua sconosciuta, attorniata da sconosciuti. Orfana alle porte d'Europa, il continente a cui suo padre aveva affidato le speranze di un futuro per i suoi figli, lontano dal caos afgano. Avevano lasciato Kabul qualche settimana prima del naufragio. Avevano venduto la casa e il padre aveva lasciato il suo posto di cameraman in una tv privata, il lavoro che amava.
Dopo il naufragio, trascorse i primi giorni a Lesbo, nella speranza di ricevere notizie che non sono mai arrivate. In quei giorni con lei è rimasta la volontaria norvegese che le aveva dato il primo abbraccio quando era stata messa in salvo nel porto di Molivos, nel nord dell'isola. Charlotte, Charly — questo è il suo nome — ha continuato ad accompagnare Rezwana in quella che è diventata un'odissea burocratica che non è ancora finita.
È stata Charly a raccontarmi per prima la storia di quella bambina, ed è stata lei, negli anni, a aggiornarmi su quello che le era accaduto dopo. A raccontarmi che non le era stata concessa la riunificazione familiare con una prozia che viveva in Svezia; che, dopo alcuni mesi in una residenza per casi vulnerabili, era stata data in affido e aveva cambiato tre famiglie; che le era stato poi riconosciuto lo status di rifugiata in Grecia e che, con i documenti in mano, aveva raggiunto quel pezzo di famiglia in Svezia, dove aveva ripreso a studiare. Fino a che, al compimento dei 18 anni, le autorità svedesi hanno deciso di rimandarla in Grecia, il primo paese di arrivo. Per la burocrazia, la sua vicenda era una pratica come le altre.
Rezwana è tornata in Grecia a febbraio del 2020, poche settimane prima dell'inizio della pandemia del secolo. Sola, di nuovo. Pochi mesi prima era riuscita ad aprire quel sacchetto di cotone che aveva conservato con cura per anni. Quando l'ho saputo, ho deciso che era una storia che andava raccontata, perché è la somma di tutte le falle del sistema di asilo europeo.
Né io né lei immaginavamo quanto quel diritto all'asilo che già per lei era diventato un'odissea sarebbe continuato a essere eroso. Fino alle derive di queste ultime settimane, fino alla normalizzazione —prima impensabile— di proposte come quella di cui l'Italia è diventata capofila, con i centri extraterritoriali in Albania. Una normalizzazione incurante del fatto che l'erosione, lo smantellamento di un diritto apre alla possibilità che il processo si ripeta con altri diritti e poi altri ancora.
Quando ci siamo messe a lavorare insieme a quello che all'inizio non sapevamo che sarebbe diventato un libro, Rezwana ha rivendicato poi un altro di diritto: il diritto al lutto, a piangere i propri cari. Dal giorno del naufragio, non aveva avuto più notizie della sua famiglia. Se all'inizio l'idea era di salvare la loro memoria attraverso il racconto, poi è trasformata in una missione, che sembrava senza speranza e che alla fine ha permesso di dare un nome a tre delle persone sepolte in un cimitero improvvisato, e mai riconosciuto come tale, che si allestì a Lesbo in quei mesi caotici e drammatici del 2015. Una missione che è stata possibile solo perché nel cammino sono emersi dei “fili invisibili”, quella rete di persone che negli anni hanno continuato e continuano a lottare per alleviare la sofferenza altrui e per proteggere diritti che riguardano tutti noi.
*Mariangela Paone è una reporter e, insieme a Rezwana Sekandari, l'autrice di “Sospesa” (Add Editori)
© Riproduzione riservata