Abruzzo, Campania, Toscana, Lombardia, Veneto, ma anche l’Europa con i paesi del nord. Aziende pubbliche e private e, perfino, Invitalia come stazione appaltante. Regioni, stati e società sono tutte coinvolte nel grande affare dei rifiuti di Roma. Attorno alla raccolta e al trattamento di circa 4.600 tonnellate di pattume al giorno, questione che necessità di impianti e competenza, si muove un giro di affari che ha una sola vittima: il cittadino con la tassa sui rifiuti tra le più care d’Italia.

C’è una cifra che racconta il fallimento nella gestione dei rifiuti nella capitale, un numero che spiega quanto ogni anno l’Ama, l’azienda comunale che si occupa di raccolta e trattamento dei rifiuti, paga per portarli presso aziende terze, anche fuori regione: circa 150 milioni di euro. Una cifra astronomica, una spesa prevista ogni 12 mesi che, in sette anni, raggiunge il miliardo di euro. Soldi che vengono letteralmente bruciati da Ama, la più grande azienda d’Europa nel settore ambientale, con circa 7.300 dipendenti, chiamata a gestire un problema che esiste da anni e che, da anni, rimane ingestibile.

Il problema principale è che l’Ama resta un’azienda di raccolta. Prelevare dai cassonetti i rifiuti è l’attività più costosa e meno remunerativa per un’azienda di igiene ambientale. Continua a mancare totalmente quella del trattamento e della gestione. Tradotto: Ama non ha impianti sufficienti per il trattamento dell’indifferenziato, multimateriale, umido e non ha discariche e inceneritori di proprietà. Ma quei 150 milioni nascondono anche un’altra cifra: quella del mancato guadagno.

Un’azienda dotata di impiantistica adeguata diventa presto una gallina dalle uova d’oro perché riceve scarti incassando cifre dal conferimento degli altri comuni. Tutto questo per Ama è rimasto un auspicio mai realizzato, appiedata dal deficit impiantistico, dalle contese interne, dalle mire dei privati e dall’incapacità del socio unico: il comune di Roma. Ama ha solo le braccia dei suoi dipendenti che si muovono lungo la città provando a raccogliere le quasi 5mila tonnellate di rifiuti che ogni giorno vengono prodotte e a rimuovere, ciclicamente, le 1.000 tonnellate che stazionano sui marciapiedi durante i momenti di crisi che attraversano Roma con una frequenza sempre maggiore.

La cartolina della città è coperta da pattume con corredo di animali di ogni genere che banchettano: gabbiani, topi, cinghiali, zecche. «Ci sono giunte segnalazioni della presenza di pulci negli spogliatoi, negli uffici e nella sala manovre dell’impianto Tmb di Rocca Cencia (…) questa condizione, per lavoratori già costretti da tempo a convivere con topi, gabbiani, blatte e piccioni, è un rischio e un’umiliazione non più accettabile», si legge in una nota della Cgil. Quella dei rifiuti, da crisi industriale e di gestione, è diventata una disputa politica attorno alla discarica dove inviare gli scarti delle lavorazioni degli impianti intermedi. È l’ultimo dei problemi, ma rappresenta l’alibi perfetto per coprire il disastro che c’è sotto.

La guerra politica

Roma ha lo stesso problema da anni: dove portare gli scarti della città. La chiusura della discarica di Malagrotta, decisa dalla giunta di Ignazio Marino sulla spinta della procedura di infrazione avviata dall’Europa, ha imposto scelte immediate. Con l’arrivo di Virginia Raggi sono stati cancellati i progetti degli ecodistretti elaborati da Marino e dall’allora amministratore delegato di Ama, Daniele Fortini, oggi presidente di Lazio Ambiente. Perché? Basta riprendere vecchie foto rilanciate sui canali social grillini con la faccia di Fortini, la croce rossa e dietro il simbolo del Pd. I manager cambiano, ma quel progetto avrebbe accompagnato Roma lontano dalla crisi. Gli ecodistretti sono stati presto sacrificati sull’altare del nuovo che avanza e dell’odio verso i democratici, ampiamente ricambiato. La foto dei consiglieri grillini con le arance quando è scoppiato lo scandaletto degli scontrini del sindaco Marino (poi assolto) ne è la riprova. La questione gira attorno a una guerra tra bande. In regione Nicola Zingaretti ha fatto entrare da tempo il M5s in maggioranza, in particolare Roberta Lombardi, un tempo avversaria dell’ex segretario democratico e acerrima nemica proprio della sindaca Virginia Raggi.

Quello del sito da indicare è un problema decennale. Nel 2011 il governo Berlusconi – la giunta regionale era guidata da Renata Polverini – aveva deciso di commissariare Gianni Alemanno, sindaco della capitale, perché non si prendeva la responsabilità di indicare un sito dove realizzare l’invaso. Come commissario era arrivato Giuseppe Pecoraro che ne aveva scelti due, entrambi irrealizzabili, e si era dimesso.

Sembra oggi. Cambiano solo i protagonisti, ma la storia ha molte similitudini. La regione Lazio sostiene che Virginia Raggi e il comune di Roma debbano indicare il sito dove realizzare la nuova discarica. Il comune dice esattamente il contrario. «I cittadini di Viterbo, di Frosinone, di Albano, dell’Emilia-Romagna, della Lombardia, dell’Abruzzo, della Puglia si sono rotti i coglioni di prendere la monnezza che Roma non riesce a mettere sul proprio territorio. Ci sono dei sorci grossi così e i cinghiali perché la città non riesce più a essere pulita, è una vergogna», ha detto l’ex segretario democratico. Pronta la risposta della giunta comunale con l’assessora ai rifiuti Katia Ziantoni: «A Roma se i rifiuti sono a terra il responsabile ha un nome e cognome: Nicola Zingaretti».

L’indicazione del sito spetta al comune, ma il comune dice che siti idonei non ce ne sono nell’area metropolitana. Ovviamente individuare un sito per realizzare una discarica significa perdita di consenso, ma anche smentire l’intero credo grillino. Tutto inizia da un grande imbroglio, il testo unico ambientale prevede il raggiungimento del 70 per cento di raccolta differenziata, imponendo obblighi di recupero di materia. Così da oltre un decennio i piani regionali, a cascata le previsioni di siti e fabbisogno dei comuni, si basano su calcoli falsi costruiti attorno alla previsione di quella cifra di differenziata. Così si sottostimano gli impianti e i fabbisogni necessari. Il grande inganno è favorito da un obbligo nazionale al quale si adattano regioni e comuni. Pianificano in base a una cifra di differenziata potenziale, ma non reale, per evitare bocciature dal ministero. Le responsabilità sono facilmente distribuibili tra i protagonisti di questa storia.

Le colpe della regione, invece, sono quelle di un piano regionale approvato tardi e che presenta alcune criticità. «Occorrerà verificare la pianificazione regionale che presenta, allo stato, numerose fragilità connesse alle previsioni impiantistiche inattuate, alle difficoltà di raggiungere gli obiettivi di raccolta differenziata posti come base teorica degli scenari individuati, all’utilizzo preponderante ad impianti di trattamento meccanico biologico che comportano un ricorso rilevante al conferimento in discarica, non compatibile con il raggiungimento degli obiettivi comunitari, recepiti nell’ordinamento nazionale», si legge in un documento del ministero della Transizione ecologica dello scorso giugno.

La scelta del sito divide regione e comune, una delibera regionale obbligava il comune a indicarne uno entro luglio aprendo la strada al commissariamento. Contro la delibera il comune ha presentato ricorso. L’individuazione dell’invaso nasconde, però, la grande mangiatoia dei privati e le colpe del comune e dell’azienda pubblica di raccolta e gestione.

Il disastro degli impianti

Raggi, sulla gestione dei rifiuti, non ha mantenuto le promesse, ha cambiato tre assessori ai rifiuti così come ha cambiato continuamente la dirigenza di Ama bruciando ogni possibilità di programmazione. Di recente l’Ama ha approvato il piano aziendale con la previsione degli investimenti e degli impianti da costruire. Un film già visto. A maggio del 2017 è stato annunciato e presentato da Ama il piano industriale. Prevedeva un obiettivo doppio che da anni l’amministrazione comunale e l’azienda si prefiggono: riduzione e incremento della differenziata.

«Incremento della raccolta differenziata di 27 punti percentuali rispetto al valore consuntivo 2016, 70 per cento al 2021 a fronte di una riduzione della produzione di rifiuti», recitava il piano. La percentuale di raccolta differenziata è aumentata di un punto, quasi identica al valore del 2016: il 44 per cento nel 2020. Un fallimento tutto in capo al comune e all’Ama.

Non solo. C’era un altro punto centrale, relativo agli impianti, vero buco nero dell’azienda. «Potenziamento della capacità impiantistica di Ama e sviluppo di partnership con attori del territorio con l’obiettivo di incrementare le quantità trattate da Ama», recitava il piano che prevedeva la costruzione di un impianto di multimateriale di ultima generazione da 80mila tonnellate all’anno, impianti per il trattamento dell’umido da 100mila tonnellate all’anno. Quanti di quegli impianti sono stati costruiti o sono in realizzazione? Zero. Dopo quattro anni siamo allo stesso punto di partenza.

«L’unico piano industriale Ama è quello relativo agli anni 2020-2024 approvato dall’azienda a novembre 2020 all’interno del Piano strategico, entrambi i documenti fanno parte del Piano di risanamento approvato dall’Assemblea capitolina il 2 aprile 2021», fanno sapere dall’ufficio stampa dell’azienda. Il nuovo piano prevede «investimenti per circa 160 milioni di euro per la costruzione di 17 centri di raccolta per i materiali ingombranti, elettronici e particolari e per la realizzazione di 8 impianti di trattamento e selezione, due dei quali riservati alla frazione organica che saranno ubicati a Casal Selce e Cesano», dice l’Ama.

In pratica Ama ha meno impianti di quanti ne aveva 5 anni fa, ma promette nuovamente di costruirne. Il bilancio di Ama, approvato dopo tre anni perché la giunta non voleva riconoscere un credito di 18 milioni alla società sui servizi cimiteriali, prevede un futuro aumento di capitale sociale per 100 milioni di euro entro il prossimo ottobre. Tutto a carico del socio Roma capitale e quindi dei cittadini. «Il piano industriale di Ama non risolve i problemi, è stato presentato adesso, ma nei fatti ritarda gli obiettivi che l’azienda si era preposta di raggiungere quattro anni fa. L’Ama è una macchina usata e vecchia, ma che deve viaggiare a una velocità pazzesca ogni giorno», dice Natale Di Cola, segretario regionale della Cgil.

Dopo un lustro, infatti, l’azienda pubblica si trova con un solo impianto di trattamento meccanico biologico, quello di Rocca Cencia (quello di via Salaria è stato chiuso a seguito di un incendio). Proprio l’impianto di Rocca Cencia è gestito da un amministratore giudiziario perché ingoiava rifiuti, ma “sputava” frazioni trattate non in linea con la normativa vigente. L’amministratore scelto dall’autorità giudiziaria ha presentato un progetto di ristrutturazione e aggiornamento tecnologico, che è in corso di autorizzazione integrata ambientale.

L’impianto di Rocca Cencia non piace all’assessora ai rifiuti del comune di Roma, ma in assenza di soluzioni alternative resta il solo impianto di trattamento di proprietà dell’Ama, inviso ai comitati che giustamente ne chiedono la chiusura visto il funzionamento contro legge che è proseguito per anni. L’altro impianto di proprietà di Ama è quello di Maccarese che tratta rifiuti organici. Ma anche in questo caso è un impianto a rischio, la Cgil ne denuncia una carenza strutturale. La stessa azienda ammette che la struttura verrà sottoposta a manutenzione straordinaria, con contestuale fermo delle attività di trattamento ed è in corso l’autorizzazione integrata ambientale. Insomma, in attesa di costruirne di nuovi, Ama rischia di perdere gli unici due impianti che consentono di trattare solo una parte dei rifiuti prodotti. L’altra, la maggior parte, viene destinata a impianti fuori provincia a costi che si aggirano in media intorno ai 180 euro a tonnellata per trasporto e trattamento.

La mangiatoia dei privati

Ogni giorno Roma produce circa 4.600 tonnellate. La parte differenziata, meno della metà, finisce nel circuito dei consorzi. Una quota è rappresentata dagli scarti alimentari che finisce a Maccarese. Quell’impianto di compostaggio, però, è piccolo e il resto dell’umido finisce fuori regione con costi esorbitanti. Ma il vero nodo è rappresentato da quello che resta al netto della percentuale differenziata. Circa il 60 per cento del pattume finisce negli impianti di trattamento biologico (Tmb). Roma ne ha solo uno così entrano in gioco i privati. L’elenco è parziale perché il bisogno di sbocchi coinvolge sempre diversi destinatari.

Il primo è Manlio Cerroni, l’ottavo re di Roma, arrestato per traffico illecito di rifiuti, processato e assolto (la procura ha fatto ricorso contro l’assoluzione mentre ci sono altri due processi in corso nei quali gli vengono contestati il disastro ambientale e i reati ambientali) che ha la proprietà di Malagrotta 1 e 2, sotto amministrazione giudiziaria. Il secondo è il gruppo Porcarelli, poi ci sono la Saf di Frosinone e la società abruzzese Deco spa. Proprio con la galassia Cerroni l’Ama ha perso un contenzioso e ogni mese paga 6 milioni di euro per un totale di 72 milioni l’anno in relazione alla gestione post mortem della discarica di Malagrotta.

Il secondo problema sono le frazioni che producono gli impianti di Tmb. Una parte finisce in discarica, ma nel Lazio sono aperte solo quelle di Civitavecchia e dell’Ecologia Viterbo. La prima chiuderà a metà agosto e già si attende l’ennesima invasione di rifiuti.

L’altra parte (il cdr, combustibile derivato dai rifiuti), in uscita dai Tmb, finisce negli inceneritori di mezza Italia. Ora Acea, controllata dal comune, ha fatto richiesta di apertura di una nuova linea di incenerimento, la quarta, dell’impianto di San Vittore. I grillini che erano contro discariche e inceneritori ora se ne servono per scongiurare disastri ulteriori. Per dare una mano a Roma si è mossa anche Invitalia che ha bandito una gara divisa in cinque lotti. Ha stipulato così accordi quadro con il sistema dell’asta elettronica per portare i rifiuti della capitale in impianti nazionali ed esteri.

Chi ha vinto? Un lotto è stato aggiudicato proprio ad Acea. Il secondo è finito all’azienda Deco Spa, di proprietà della famiglia Di Zio. Altri due lotti sono andati alla Pa service della famiglia Santini che intermedia rifiuti. Gli scarti finiranno in inceneritori del nord Europa a un costo di 155 euro a tonnellata per un lotto e di 202 euro a tonnellata per l’altro. Intanto l’Ama fa sapere anche di accordi con la Toscana e la Campania, sottoscritti dalla regione Lazio, per inviare i rifiuti romani.

Il disastro gestionale produce anche contenziosi con l’Europa. Ci sono due due atti di pre-contenzioso comunitario inerenti alla gestione dei rifiuti nella regione Lazio e nel comune di Roma, situazioni critiche che l’Europa segue con grande attenzione. «Occorre sottolineare che, in caso di condanna dello stato italiano, le amministrazioni territoriali non saranno esenti da eventuali profili di natura erariale», recita un documento del ministero della Transizione ecologica. L’emergenza non deve finire perché la mangiatoia fa gola a tutti.

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